Luigi Rossi Luciani: «Stipendi bassi, i laureati emigrano. L’Italia ora cambi»

Il presidente di Carel Industries: «Imprese italiane troppo piccole, difficile aumentare la produttività. Così i salari sono fermi, perché non c’è abbastanza ricchezza da redistribuire»

Roberta Paolini
Luigi Rossi Luciani
Luigi Rossi Luciani

Luigi Rossi Luciani, qual è il suo giudizio sulla produttività del nostro Paese?

«Il sistema Paese non aiuta. Parlo della produttività, della capacità di creare ricchezza attraverso la produzione. Credo che questo non sia il contesto ideale perché, se si osservano i salari, non crescono: non c’è abbastanza ricchezza da redistribuire. Le aziende non producono di più per unità di prodotto rispetto a Paesi come Stati Uniti, Germania o Francia, senza neanche considerare la Cina. Anche quando aumenta l’occupazione, non si verifica un corrispondente aumento della produttività».

Lei ritiene ci sia un problema strutturale legato alla produttività?

«Uno dei problemi è la frammentazione del tessuto imprenditoriale: in Italia resiste una vasta rete di piccole e medie imprese che, in generale, sono meno efficienti rispetto alle grandi aziende internazionali. Questo comporta un deficit di investimenti strategici e di innovazione. La nostra piccola e media impresa, pur essendo il cuore del sistema, è meno produttiva della media azienda europea. Non abbiamo più grandi aziende: quelle che c'erano sono state comprate da imprese internazionali o sono pubbliche come Eni ed Enel».

Cosa manca per competere alla pari con gli altri Paesi europei?

«Manca il pezzo delle grandi imprese. Senza grandi aziende, non possiamo fare grossi investimenti o ottenere risultati comparabili. La cultura imprenditoriale non è così diffusa, essendo le imprese autogenerate e con dimensioni che non attraggono campioni di organizzazione. Ci vogliamo europei, ma spesso non ci comportiamo come tali. Noi italiani abbiamo delle responsabilità, e non possiamo continuare a puntare il dito solo verso gli altri».

Quali sono queste responsabilità in Europa?

«Ogni Paese europeo ha le sue colpe, nessuno è esente. Prendiamo l'Austria: ha enormi responsabilità sul piano della viabilità, con ostacoli che creano danni e inefficienza. La Francia? Pensiamo ai cantieri navali e al protezionismo che mette in atto. La Germania? Anche lì non mancano le responsabilità, soprattutto in campo bancario. Ma noi italiani spaventiamo l'Europa con il nostro debito. Il problema è che ci mettiamo troppo tempo per attuare le riforme necessarie. L'Europa può e deve diventare un'entità più politica ed economica, ma per farlo dobbiamo tutti metterci del nostro, dimenticando gli egoismi».

E l'Italia in particolare?

«L'Italia ha una situazione paradossale. Abbiamo un buon sistema educativo, ma sempre meno laureati, e quei pochi che formiamo vanno all'estero. I nostri stipendi e le condizioni di lavoro non sono così attrattivi da colmare questo deficit. Perché i nostri ragazzi non tornano? Perché non riusciamo ad attrarre talenti dall'estero? Siamo un Paese che perde le risorse migliori».

Parla anche di un calo della natalità come fattore critico.

«Sì, la bassissima natalità è un problema enorme. Le donne non sono incentivate a fare figli, la fertilità è in calo e le condizioni per avere e crescere figli in Italia non sono attrattive. Tutto ciò avviene in un Paese dove l'età media della popolazione continua ad aumentare e c'è chi pensa che accorciare il periodo lavorativo sia la soluzione. Serve un cambio di rotta, se si vuole mantenere gli stessi standard di vita».

Il decisore politico ha le sue responsabilità, ma c’è da dire che siamo un Paese refrattario al cambiamento.

«Sarebbe bello vedere la politica che smette di fare discorsi astratti sugli anziani e si concentra sui veri problemi quotidiani. Parliamo tanto di Ius Soli e Ius Scholae, ma la verità è che ci siamo stancati di inseguire la gente con permessi di lavoro che è già integrata, parla i nostri dialetti. Perché non dovrebbero diventare italiani? Se vogliamo un futuro, dobbiamo formare queste persone e integrarli nel nostro sistema».

Lei critica anche le riforme e i bonus recenti?

«Il 110 per cento è una vergogna, la politica dei bonus è una vergogna. Abbiamo mandato in pensione gente a 39 anni, senza mettere le persone giuste al posto giusto. Non è solo questione di riforme buone o cattive, ma del fatto che dietro ogni riforma si cerca solo il consenso. Guardi le concessioni balneari: ci si attacca a modelli corporativi obsoleti invece di puntare su efficienza e concorrenza. Paesi come quelli anglosassoni sono cresciuti grazie alla concorrenza, mentre noi ci impantaniamo in vecchi modelli».

Ci sono però due questioni culturali che nessun disegno politico ha realmente affrontato. Una è la questione delle donne.

«Le donne sono state sacrificate e umiliate per troppo tempo. Ora sono la nostra più grande risorsa per il futuro. Si laureano più delle loro controparti maschili e con voti più alti, ma fanno meno carriera e guadagnano meno. Dobbiamo spingerle a fare di più, a parlare di più. Oggi, nelle scuole tecniche, vediamo qualche progresso, ma non è ancora abbastanza: siamo lontani dal 50-50. Le famiglie spesso sbagliano a educare le ragazze, relegandole a ruoli secondari. Dobbiamo promuovere la loro partecipazione attiva a tutte le professioni, soprattutto in ambiti tecnici e scientifici. Il futuro dipende da loro».

La seconda questione riguarda i giovani, parlare di capitale umano e di fuga dei cervelli è un pensiero che fa cortocircuito se poi ci sono barriere alla scalata dei giovani.

«I giovani in Italia fanno fatica ad arrivare ai vertici, e questo è un danno enorme. Il nostro sistema scolastico è teorico, ma manca di praticità. Formiamo ragazzi con una conoscenza straordinaria delle materie, ma non della vita reale. Bisogna dare più spazio ai giovani nelle posizioni di comando, anche se hanno meno esperienza. Il problema è che questa è una società conservatrice, dove chi ha il potere non lo cede facilmente. Dobbiamo valorizzare di più la loro testa, le loro idee. Ma è ancora più grave per quanto riguarda le giovani donne, che sono ancora più marginalizzate rispetto ai loro coetanei maschi».

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