Landini: «Referendum per tutelare di più milioni di dipendenti»
Il segretario della Cgil è il motore da cui è partito tutto: «Siamo convinti che alla fine, nonostante tutto, raggiungeremo il quorum. Io che aspiro a un ruolo politico? Non esiste»


Maurizio Landini, segretario della Cgil, è il motore da cui è partito tutto. La sfida referendaria al governo sui temi del lavoro l’ha avviata lui con il suo sindacato: gli altri, cioè le opposizioni, poi si sono accodati. Tanto che si è parlato di un ruolo politico di supplenza della Cgil rispetto ai partiti. Ruolo che Landini però nega: «Non esiste».
Ma perché avete promosso questi referendum, pur sapendo che è arduo raggiungere il quorum?
«Perché da troppi anni il mondo del lavoro ha subito delle leggi ingiuste che hanno finito per incidere anche sulla nostra funzione di tutela di lavoratrici e lavoratori. Si tratta di milioni di persone che, in caso di licenziamento illegittimo, non hanno più il diritto di essere reintegrati nel posto di lavoro o che hanno un tetto all’indennità di risarcimento, vivono una condizione di permanente precarietà, rischiano infortuni nelle aziende che operano nel ciclo degli appalti. Non possiamo continuare ad accettare una legislazione che penalizzi il lavoro: questa nostra iniziativa vuole dare una risposta a una parte consistente del mondo del lavoro e porre freno a politiche sbagliate fatte da forze di diversa provenienza».
Non temete l’effetto boomerang sulle battaglie in Parlamento per i salari giusti, se doveste fallire questa prova di forza sulla precarietà?
«Siamo convinti che, nonostante le difficoltà e una campagna che spinge per il non voto, raggiungeremo il quorum e prevarranno i sì all’abrogazione di quelle leggi. Questo darà ancora più forza alle nostre istanze per incrementare i salari e sconfiggere la precarietà».
Pochi sanno che le istituzioni commettono in teoria reato se invitano all’astensione dalle urne: lo ha ricordato il professor Michele Ainis. Perché non state usando anche questo argomento? Forse perché la storia recente è piena di inviti a non votare?
«Ho molto apprezzato che una personalità così autorevole abbia ricordato questo aspetto. Ciò che dispiace di più è l’arroganza di chi fa finta di nulla e invita le persone ad astenersi. È evidente l’insensibilità di chi ricopre anche importanti cariche istituzionali nei confronti di chi sta peggio. Si tratta di un tatticismo di palazzo che fa male alla democrazia».
Nel merito, perché votare Sì ai quattro quesiti sul lavoro?
«Con il Sì ai cinque quesiti tre milioni e mezzo di dipendenti delle aziende al di sopra dei 15 addetti otterrebbero il diritto al reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo, tre milioni e 700 mila dipendenti delle piccole aziende otterrebbero un incremento del risarcimento sempre in caso del licenziamento illegittimo, due milioni e 300 mila contratti a termine potranno uscire dalla condizione di precarietà, migliaia di lavoratrici e lavoratori che operano in ditte in appalto potranno avere maggiori condizioni di sicurezza nei propri posti di lavoro, due milioni e 500 mila uomini e donne otterrebbero finalmente la cittadinanza. Si tratta di cambiamenti reali per chi negli anni ha subìto una legislazione che ha negato diritti fondamentali sul lavoro e di cittadinanza. Ma l’altro grande cambiamento è che si rimetterebbe al centro il valore del lavoro, costringendo tutta la politica a fare i conti con chi per vivere ha bisogno di lavorare».
Una delle obiezioni sull’articolo 18 che vorreste ripristinare, è che il mercato del lavoro è molto mutato e non avrebbe senso ripristinare una tutela introdotta nel 1970 e abolita 10 anni fa.
«Chi sostiene queste tesi difende con evidenza gli interessi delle imprese. Non abbiamo mai incontrato nessuno che preferisca l’indennizzo monetario alla reintegra nel posto di lavoro. Vogliamo difendere gli interessi di lavoratrici e lavoratori che subiscono l’assenza del diritto al reintegro come una forma di ricatto costante».
Ma visto che il Jobs act è stato modificato dalla Consulta e che si tornerebbe dunque alla legge Fornero del 2012 che già prevedeva l’opzione dei risarcimenti in caso di licenziamenti, se vince il Sì, in quali casi un lavoratore verrebbe riassunto?
«Il ritorno dell’articolo 18 comporta comunque il ritorno del diritto al reintegro nei casi di licenziamenti disciplinari o collettivi ingiusti, o per motivi economici illegittimi. Il solo risarcimento economico è un modo per monetizzare un diritto fondamentale cui non vogliamo rinunciare».
Altro quesito, altra obiezione ricorrente: dare ai giudici la facoltà di imporre indennizzi senza limiti a imprese sotto i 15 dipendenti che licenziano, rischia di far chiudere tante microimprese, spesso a conduzione familiare. O no?
«Chiariamo un fatto: quando si parla di piccole imprese non si parla solo di imprese a conduzione familiare, ma anche di imprese solide con fatturati di tutto rispetto. In quei casi lì non credo sia giusto porre un tetto al risarcimento a una persona che magari ha lavorato per tutta la vita nella stessa azienda e viene ingiustamente licenziato. Poi, ripeto, stiamo parlando di licenziamenti senza una giusta causa».
Molti economisti contestano la responsabilità solidale delle società committenti per gli infortuni nei cantieri delle ditte appaltatrici. Poiché spesso i committenti non hanno le competenze di chi esegue specifici interventi nei cantieri e quindi non è corretto fargli pagare inadempienze altrui sulla prevenzione. Sbagliano?
«Sì, anche in questo caso la tesi vuole favorire gli interessi delle imprese e non di chi lavora. Deresponsabilizzare le imprese committenti, come abbiamo visto in tanti casi drammatici accaduti anche di recente, comporta troppo spesso il ricorso ad aziende che non rispettano le normative sulla sicurezza per risparmiare sui costi. È ormai certificato che gli incidenti peggiori accadono per queste ragioni proprio nel ciclo degli appalti, perché c’è un modello di fare impresa basato sulla logica del massimo ribasso, che sacrifica i diritti per ottenere maggiori profitti». —
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