Renzi sul referendum: «Una battaglia che trascura il futuro»

L’ex premier e leader di Italia Viva: «Il mercato del lavoro funziona se dinamico. Imbarazza Meloni che andrà alle urne senza ritirare schede, ma si indebolirà l’opposizione»

Carlo BertiniCarlo Bertini
Matteo Renzi (Agf)
Matteo Renzi (Agf)

Matteo Renzi, ex premier e leader di Italia Viva, incarna più di ogni altro il ruolo di avversario dei promotori dei referendum sul lavoro: da segretario Pd, nel 2015 varò il Jobs act, con cui il suo governo modificò le regole, togliendo la tutela dell’articolo 18, attirando gli strali del sindacato.

Oggi Elly Schlein conduce una battaglia per abolire una legge varata proprio dal Pd, tanto che mezzo partito se ne dissocia, querelle tutta interna alla sinistra da cui la destra ha fatto in modo di tenersi fuori. Unico elemento che vede d’accordo il partito di Renzi, Pd, M5s e il sindacato è il Sì al quesito per dimezzare gli anni di residenza in Italia per avere la cittadinanza.

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La redazione
Un precedente seggio elettorale per i referendum (Bonaventura)

«Chi è nato e cresciuto in Italia, chi ha fatto qui le scuole, lavora, paga le tasse, parla italiano meglio di tanti parlamentari, ha diritto di essere cittadino. La cittadinanza è integrazione», taglia corto Renzi. Per nulla turbato che quello che fu il suo Pd oggi si schiacci sul sindacato che lui ha combattuto, la Cgil: «Le alleanze si fanno fra diversi o si starebbe tutti nello stesso partito. Più Elly va a sinistra più c’è bisogno di costruire qualcosa al centro. E io lavoro per questo».

Partiamo dal risultato politico dei referendum: non è un regalo di Schlein a Meloni, che può trasformarsi in un boomerang per il centrosinistra, ingaggiare battaglia sapendo che il quorum equivale a un miraggio?

«Aprire una battaglia referendaria che nasce già persa non rafforza l’opposizione, la indebolisce. Io faccio campagna per il No, ma credo che, subito dopo, sarebbe meglio parlare di futuro. Il centrosinistra deve dare risposte su salari, sanità e sicurezza. Non discutere una battaglia ideologica contro il Jobs act. Il mio suggerimento a Landini è semplice: ora che avete finito di fare la guerra a Renzi, perché non ci concentriamo sul fare l’opposizione a Meloni?».

Che ne pensa dell’invito fatto da personalità delle istituzioni a disertare le urne?

«Io andrò a votare. Dopo di che, non votare a un referendum che prevede il quorum è legittimo. Quello che imbarazza è sentir dire a Giorgia Meloni che andrà, ma non ritirerà la scheda. La premier non riesce mai a essere chiara. Andare al seggio e non votare è come andare al ristorante e non mangiare. Meloni fece campagna contro il Jobs act. È favorevole o contraria? Abbia il coraggio di esprimersi. Per una volta, dica quello che pensa, se pensa poi qualcosa. Ma Meloni è cintura nera di incoerenza: trivelle, Euro, Putin, Nato, Jobs act. Non ricordo un solo tema su cui non si sia rimangiata tutto».

Sentiamo: perché bisogna votare No al quesito che abolisce il Jobs act?

«Chiariamoci: il Jobs act è una scelta politica con tante misure. Gli 80 euro in busta paga, Industria 4.0, la riforma del terzo settore, il divieto di dimissioni firmate in bianco, eccetera. Questo referendum non cancella il Jobs act. Non ritorna l’articolo 18, non migliora la qualità del lavoro. Il Jobs act ha prodotto più tutele, più diritti, non meno. Ha abolito le dimissioni in bianco, introdotto la Naspi e il Reddito di inclusione, rafforzato l’apprendistato, scoraggiato le false partite Iva, dato avvio a un sistema di politiche attive e di formazione. Ha favorito assunzioni, non licenziamenti. La verità è che il mercato del lavoro funziona se è dinamico. E il nostro problema sono i salari bassi, non i licenziamenti facil. Ecco, la Cgil ha sbagliato obiettivo: dobbiamo parlare della crisi del ceto medio per i prossimi 10 anni, non fare un dibattito ideologico su 10 anni fa».

Il Jobs act negli anni è stato modificato dalla Consulta, ma se vincessero i Sì tornerebbe il reintegro per licenziamenti illeciti. Non è una giusta tutela oltre ai risarcimenti, per chi li sceglie?

«Questa tutela già c’è. Per i licenziamenti discriminatori, per quelli nulli, per le disabilità, il reintegro esiste. Il quesito vuole abolire un equilibrio pensato per ridurre il contenzioso e aumentare la certezza del diritto. Ma non esiste più nemmeno il contratto a tutele crescenti, nella sua versione originaria modificato dalla Consulta. Chi pensa che votando Sì si torni magicamente al passato, sbaglia. Si vota su qualcosa che non c’è più. Parliamo piuttosto di futuro: AI, qualità del lavoro, investimenti sulla conoscenza, società quantistica».

Scoraggiare i contratti precari è obiettivo di chi vuole reintrodurre la causale nei contratti sotto i 12 mesi. Così non si evitano finte assunzioni, seguite da licenziamenti, metodo ricorrente?

«No. È un modo per scoraggiare proprio le assunzioni. La causale riduce la flessibilità e quindi la possibilità di entrare nel mercato. Il Jobs act ha cercato di superare il dualismo tra garantiti e non garantiti. Ha tolto incentivi ai contratti atipici e spinto verso quelli stabili. Reintrodurre la causale non combatte il precariato: lo nasconde».

L’obbligo di risarcimenti da parte delle imprese committenti per infortuni nei cantieri delle ditte che eseguono lavori senza cura della prevenzione, non sarebbe modo per scoraggiare gli appalti al massimo ribasso?

«Su sicurezza e appalti si deve intervenire, certo. E io voterò Sì a quel quesito. Ritengo però che un referendum non basta. È già oggi obbligo dell’impresa garantire la sicurezza, anche nei subappalti. Serve far funzionare le leggi. Se vogliamo più sicurezza, servono più ispezioni e trasparenza, non più burocrazia».

Infine, cosa comporta togliere il limite di 6 mensilità agli indennizzi che le piccole imprese devono dare ai lavoratori licenziati?

«Se sono microimprese non le puoi gravare di super impegni: altrimenti tutti vivranno di sussidi. Comporta l’effetto opposto a quello dichiarato: disincentiva l’assunzione. Se un piccolo imprenditore non sa quanto gli costerà licenziare, non assume. È un freno, non una tutela».

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