Referendum, i rischi del non voto per i leader e i partiti
Per i referendum l’astensionismo è un problema strutturale, dovuto all’abuso in passato con quesiti risibili. Ma sponsorizzarlo può rivelarsi un boomerang


Certo, erano altri tempi, l’Italia nel 1946 usciva da vent’anni di urne chiuse dal fascismo, quindi non fu un caso se nelle riunioni in Assemblea costituente la prima versione dell’articolo 48 della Carta recitasse che «l’esercizio del voto è un dovere civico e morale». Poi il termine “morale” fu espunto per evitare eccessi, ma il concetto era chiaro. Tanto che, fino al 1993, a mo’ di stigma, c’era una sanzione: l’iscrizione «non ha votato» nel certificato di buona condotta, documento utile per i concorsi sostituito poi dal casellario giudiziale. Come a dire, questo non è un bravo cittadino.
Quindi va da sé che il capo dello Stato domenica sarà il primo a presentarsi alle urne, quale che sia il suo giudizio sui cinque quesiti referendari: «Democrazia è partecipazione», ha ripetuto Sergio Mattarella il 25 aprile a Genova dopo averlo già rimarcato a Trieste alla Settimana sociale dei cattolici. «Non possiamo arrenderci all’assenteismo dei cittadini dalla cosa pubblica» è un monito che tutti i partiti fanno proprio, ovviamente. Tranne quando in ballo ci sono i referendum: dove serve che la maggioranza dei cittadini vada alle urne perché i Sì e i No siano validi: il quorum, inserito dai Costituenti per evitare che una singola categoria come i balneari o gli agricoltori, potesse provare ad abolire una legge sgradita con un pugno di voti.
Ma non fu indolore: «Chi non vota non può pesare sulle deliberazioni del corpo elettorale» si infiammarono alcuni; altri, come il presidente Umberto Terracini, temevano che fissare un quorum di partecipazione referendaria «si riverberasse pure sulla consultazione elettorale». Insomma, invalidare un pronunciamento popolare, pur se di una minoranza di elettori, non andava giù a molti. Ma si decise così.
Quindi nulla osta sul piano formale che i partiti di governo, contrari ad abrogare le leggi in vigore sul lavoro e la cittadinanza, invochino l’astensione. E anche se le polemiche su analoghi inviti (da Craxi e Bossi, da Fassino e Cofferati, da Berlusconi e Renzi) ci sono sempre state, stavolta è il contesto mutato a fare la differenza. La querelle sulla scelta della premier di andare alle urne senza ritirare le schede (così da rendere nulla la sua presenza ai seggi) ha come primo effetto quello di disorientare i cittadini. Ormai così distratti e disinteressati alle vicende politiche da provare fastidio per simili battibecchi e sempre tentati di restarsene a casa. Gonfiando un astensionismo divenuto patologico.
Nel caso dei referendum, il fenomeno è strutturale e dovuto all’abuso di questo strumento con quesiti risibili: gli ultimi a centrare il quorum furono quelli del 2011 sull’acqua pubblica e sul nucleare (trainati dal disastro della centrale in Giappone) e bisogna risalire di trent’anni per trovare altri casi. Più in generale, il partito dell’astensione alle urne in Italia è più forte che altrove: dal 2006 al 2022 è raddoppiato dal 18 al 36% alle politiche e ormai supera il 50% nelle tornate locali.
In questo quadro, sponsorizzare la non partecipazione al voto potrebbe rivelarsi un boomerang: poiché espone gli stessi partiti – soprattutto i leader – all’accusa di essere i principali promotori dell’indifferenza alla politica partecipata, di minare alla radice la più alta forma di espressione della volontà popolare, contribuendo al crollo del grado di civismo di una repubblica fondata proprio su un voto referendario 80 anni fa. Non un gallone di cui fregiarsi per chi dovrà chiamare il popolo alle urne per il governo delle regioni e del Paese.
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