Caro Valditara, sulla Maturità sbagli: il futuro non è dei vecchi
Troppi over 60 sono manager alla guida del Paese, bisogna credere nelle nuove generazioni e nelle donne. Ma in Italia il processo di crescita li lascia fuori

«Cambierò la maturità: i ragazzi non la faranno più franca». Così pare abbia dichiarato il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara in seguito alle proteste di alcuni studenti durante l’esame. Proteste rivolte non tanto all’esame in sé quanto al sistema scolastico che sentono come troppo violento, orientato principalmente alla competizione e alla prestazione.
Proviamo a sospendere il merito della polemica, su cui dovrebbero esprimersi coloro che quotidianamente lavorano nella scuola, in tutti i ruoli. Concentriamoci per un momento sulla sintassi e la scelta lessicale. Quel «cambierò» declinato al singolare e sul quel «non la faranno più franca».

La lingua, l’abbiamo imparato nell’ottima scuola pubblica italiana, spesso sfugge al dominio della coscienza mostrando traccia di pensieri inconsci tanto veri quanto più inconsapevolmente esibiti. Quel «cambierò» quindi: declinare al singolare e per di più con tono di immediatezza un’azione che riguarda un bene, forse uno dei massimi beni, della polis suona allarmante.
Il sistema scolastico italiano non è frutto di decisioni personali, tanto meno di reazioni vendicative, ma di studi e di analisi ponderate di gruppi esperti che mettono al centro l’interesse e la crescita dei cittadini. Periodicamente viene aggiornato e modificato, non sempre nel migliore dei modi forse, ma con l’intento di rispondere ai cambiamenti del tempo, alle domande e alle esigenze dei nuovi soggetti che riempiono le aule. E in questo modo la società tutta evolve.
C’è poi l’inquietante giudizio «i ragazzi non la faranno più franca», che sott’intende un’intera visione. Semplificando: un pensiero che divide il paese in “ragazzi” – che la fanno franca, sfuggono di doveri e la fatica, hanno pochi meriti e molte mancanze – e in “adulti”, quelli che una volta si sarebbero chiamati “vecchi”, persone sulla soglia della pensione, vissuti in un mondo mai così diverso da quello che si trovano a dirigere, che non solo dettano le regole, ma detengono tutti gli strumenti per attuarle, che non reputano interessante ascoltare istanze esterne al loro cerchio anagrafico. Una visione, sempre semplificando, dove i vecchi odiano i giovani.
È vero che le generazioni più adulte hanno sempre biasimato quelle più giovani, tant’è che quest’ultime spesso i propri spazi hanno dovuto prenderseli alzando i toni, scendendo in strada, esasperando il conflitto. Così il mondo è progredito. Tuttavia mi pare che lo spirito dei tempi, così ben incarnato dalle parole di Valditara, abbia due caratteristiche sue proprie.
Mai come in questi anni la classe dirigente è anziana e pochissimo disposta a lasciare lo spazio nell’arena pubblica e nel gioco dei poteri. Il Ventiquattresimo Rapporto dell’Inps mostra un paese dove i pensionati continuano a lavorare, i giovani vanno all’estero, gli stipendi sono fermi. Aumentano sì gli occupati, ma sono tutti ultracinquantenni. A perdere terreno è la fascia dei 25-34 e dei 35-49 anni. Ciò significa che sono i vecchi e non i giovani a guidare il processo di crescita.
E questo in un mondo che sta affrontando la minaccia delle guerre sempre più ai confini d’Europa, il cambiamento climatico e la sfida dell’IA. Tutti fattori che faranno sentire le loro conseguenze nei prossimi venti o cinquant’anni. Il fatto che a guidare il paese sia una classe che non avrà a che fare con tutto questo, dice molto su quali saranno i criteri che guideranno le scelte.
Pericoli e i disastri potenziali connessi all’emergenza ambientale, alla proliferazione delle armi nucleari, allo sviluppo delle macchine intelligenti, richiedono coscienze pronte e una forte presa sull’immaginario collettivo, visioni capaci di orientare la politica non più solo verso l’ossessione economica e gli interessi nazionali ma verso sinergie solidali e nell’interesse mondiale: per questo servono nuove energie, nuove idee, nuove menti. Persone che hanno tutto un futuro davanti.
Ma il Paese procede in direzione ostinata e contraria. Il rapporto di Heidrick & Struggles che ha analizzato oltre 1.200 Ceo in 27 mercati globali ha messo in luce che in Italia gli incarichi al vertice delle aziende restano un affare per uomini maturi e con titoli accademici modesti: con il risultato di una realtà statica e poco aperta al cambiamento. In Italia la stragrande maggioranza dei manager supera i 60 anni, resta in carica in media 6, 4 anni, ha un profilo formativo debole e ha una carriera legata spesso a ruoli operativi o finanziari. Paesi come Irlanda, Francia e Danimarca mostrano invece una tendenza opposta: qui i Ceo spesso vengono scelti prima dei 50 anni e, in Irlanda, nel 31% dei casi, addirittura sotto i 45.
Sulla diversità di genere i dati sono altrettanto desolanti. La percentuale di donne al vertice in aziende italiane, nel campione analizzato, si ferma al 3%, contro una media europea del 7% e globale dell’8%.
Ma torniamo all’esame di maturità. Il ministro Valditara ai ragazzi che contestano le valutazioni e la competizione risponde: «La vita è fatta di questo». Sulle pagine del Corriere della Sera l’editorialista Gramellini a una ragazza che lamenta una scuola poco attenta all’identità vera dei ragazzi risponde: «Abituati, Maddalena, perché all’università sarà uguale e sul lavoro anche peggio. Troverai persone pronte a pestarti i piedi e altre che ti addosseranno colpe non tue pur di pararsi il fondoschiena. Della “vera te” si preoccuperanno in pochi, alcuni dei quali finiranno per deluderti, perché ti volteranno le spalle nel momento del bisogno. La vita, purtroppo, funziona così».
Lasciando da parte il tono paternalistico di entrambi, quanta tristezza mettono queste risposte, quanta miopia vi si legge, quanto provincialismo anche. Verrebbe da dire, quanta paura. Il mondo sta cambiando, loro malgrado. Nuove emergenze chiamano nuovi uomini e nuove donne, una società basata su alleanze e stili di vita più solidali, più aperti, più armonici: i ragazzi e le ragazze l’hanno capito. E c’è da scommettere che saranno capaci di creare, nel loro mondo più difficile, qualcosa di migliore.
Saranno adulti meno pronti a pestare i piedi agli altri e a sopraffare, non avranno l’agonismo come valore, proprio perché le questioni del presente impongono risposte e attitudini differenti. È allora il tempo di lasciare loro spazio, prima che sia troppo tardi, perché ogni generazione deve rispondere al proprio tempo: il futuro è della giovinezza e la giovinezza, per quanto suoni scandaloso alle orecchie di molti, ha vent’anni.
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