Riforma della Maturità: quel silenzio che nessuno ha ascoltato

Dal 2026 non si chiamerà più Esame di Stato, si torna al vecchio nome, come fino al 1998, e il colloquio orale diventerà obbligatorio. Nella scuola del “merito” risulta più meritevole di promozione un ragazzo impreparato di uno che, pur avendo studiato, decide consapevolmente di esercitare il diritto al silenzio

Enrico Galiano
Dal 2026 non si chiamerà più Esame di Stato ma di nuovo Maturità, come fino al 1998
Dal 2026 non si chiamerà più Esame di Stato ma di nuovo Maturità, come fino al 1998

Ogni volta che sento parlare di riforma della Maturità mi viene in mente quella vecchia pubblicità del detersivo: «Nuovo, con una formula ancora più concentrata!». Ogni volta il sospetto che il nuovo sia in realtà il vecchio e che sia solo una trovata pubblicitaria ti viene, vero?

Solo che qui non parliamo di macchie difficili, ma di ragazzi e del loro futuro. E allora ecco: dal 2026 non si chiamerà più Esame di Stato ma di nuovo Maturità, come fino al 1998, e il colloquio orale diventerà obbligatorio. Ma che questo governo cercasse spesso nel passato le risposte per il futuro lo avevamo capito già da tempo.

Un esame orale che davvero valuti la capacità di ragionare, di collegare, di argomentare, è un passo nella direzione giusta. Ma la riforma introduce un principio che di educativo non ha nulla: se non fai l’orale, ripeti l’anno. Non importa se hai preso dieci agli scritti, o se sei stato un alunno eccellente: la logica è quella del castigo, non della crescita. E lo sappiamo: punire non produce apprendimento. Lo dicono da decenni le ricerche pedagogiche, lo sappiamo noi insegnanti ogni volta che una nota sul registro ottiene l’effetto contrario a quello sperato.

E se poi uno studente fa scena muta perché banalmente non ha studiato? Come facciamo a saperlo?

Perché accade che nella scuola del “merito” risulti più meritevole di promozione un ragazzo impreparato di uno che, pur avendo studiato, decide consapevolmente di esercitare il diritto al silenzio. Ora, sia chiaro: qui nessuno è fan del silenzio agli orali. O almeno, non io. Ma i ragazzi che questa estate hanno optato per questa scelta stavano cercando di dirci qualcosa. Qualcosa che era in realtà anni che ci urlavano ma che, dato che nessuno li stava a sentire, hanno deciso di urlare ancora più forte: stando zitti. E direi che, visto tutto il clamore che hanno alzato, ci sono riusciti alla grande.

E il problema è proprio qui. È stato solo un terremoto nel deserto, o ha ridisegnato almeno un po’ il paesaggio? Purtroppo, temo che la risposta sia la prima, perché qui arriva l’aspetto che più brucia: nessuno ha chiesto ai diretti interessati cosa ne pensassero. La risposta alla protesta è stata una riforma scritta sopra le loro teste. Pretendiamo da loro “maturità”, ma non li riteniamo abbastanza maturi per essere coinvolti. Chiediamo loro di esprimersi, ma poi quando lo fanno non li ascoltiamo.

E allora diciamolo chiaramente: se vogliamo che i ragazzi ci ascoltino, dobbiamo prima imparare ad ascoltarli. Se vogliamo che credano ancora nella scuola, dobbiamo prima mostrare di credere in loro. Se vogliamo che si sentano cittadini, dobbiamo prima trattarli da cittadini.

Perché la maturità non si misura con l’obbedienza alle regole, ma con la capacità di comprenderle e discuterle. Non con i voti che prendi, ma con le domande che impari a farti. E soprattutto, non con la forza di chi zittisce il dissenso, ma con il coraggio di ascoltarlo e mettersi in discussione.

Ecco allora che la domanda nasce spontanea: questo decreto lo passerebbe, l’esame di maturità?

Difficile dirlo. Ma la sensazione è che ci sia arrivato poco preparato.

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