Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 16 ottobre
“After the Hunt” il pamphlet filosofico di Luca Guadagnino. La maternità secondo Elisa Amoruso (Amata). La caduta del regista di culto Ari Aster (Eddington). E, ancora, il coming of age “Squali” e i buoni sentimenti di “Per te”

Julia Roberts è la protagonista del nuovo lavoro di Luca Guadagnino. “After the Hunt” è un rigoroso esercizio di parola sui temi più complessi della contemporaneità. Affascinante ma anche estenuante. La prolificità di Guadagnino non giova alla qualità dei suoi ultimi lavori.
Elisa Amoruso racconta la maternità da due punti di vista: quella indesiderata di una giovane studentessa (Tecla Insolia) e quella negata a una donna (Miriam Leone) che vorrebbe essere generatrice di vita a qualunque costo. Tra cinema del reale e melò, “Amata” sbanda sul secondo.
Ari Aster sublima le paranoie del suo cinema in un bulimico racconto di provincia ai tempi del Covid. Sovrabbondante e tellurico, “Eddington” è puro caos narrativo senza fondamenta che finisce per implodere su se stesso.
Girato in Veneto e tratto dall’omonimo romanzo del trevigiano Giacomo Mazzariol (“Mio fratello rincorre i dinosauri”), “Squali” annega nei luoghi comuni, nonostante il cast importante: dalla star hollywoodiana James Franco al talentuoso Lorenzo Zurzolo.
Dalla storia vera del ragazzino di Concordia Sagittaria, nominato “Alfiere della Repubblica” per le cure prestate al padre malato di Alzheimer, esce in sala “Per te” di Alessandro Aronadio. Tocco leggero, forse ingenuo, ma capace di fa riemergere i buoni sentimenti sotto il pelo dell’acqua della vita borghese
After the Hunt – Dopo la caccia
Regia: Luca Guadagnino
Cast: Julia Roberts, Andrew Garfield, Ayo Edebiri, Michael Stuhlbarg, Chloë Sevigny
Durata: 138’
“After the Hunt – Dopo la caccia” è un film complesso, multiforme, quasi un pamphlet filosofico che affronta temi cruciali della contemporaneità, partendo dalla storia di Alma (Julia Roberts, densa e respingente), una affermata e sofisticata professoressa di Yale, costretta a fare i conti con il proprio passato traumatico e, soprattutto, con se stessa, dopo che una studentessa (Ayo Edebiri) del suo dipartimento di filosofia le confessa di essere stata molestata da Hank (Andrew Garfield), collega e amico intimo di Alma.
Luca Guadagnino, nel firmare la sua decima regia (la quarta in poco più di due anni: una prolificità che non sempre è proporzionale alla qualità) riflette sul concetto di verità, ma anche su quello di ambizione (tutti i personaggi, tranne l’amorevole e devoto marito di Alma, che sembra l’unico “giusto” in una terra di “ingiusti”, lottano, infine, per mantenere o acquisire uno status) e della percezione del nostro essere da parte degli altri e di noi stessi.
C’è (forse) il comportamento molesto e predatorio di Hank sul banco degli imputati, ma c’è anche l’ambiguità di Alma di fronte alla confessione della studentessa (che la fa vacillare nel sentimento di solidarietà femminile) e lo scontro con una generazione più giovane, cresciuta nella bambagia e così pigra da ambire, al massimo, alla mediocrità.
Ci sono le dinamiche di potere (uomo-donna; mentori-pupilli) e dissertazioni sul vecchio e nuovo patriarcato. Dopo le allucinazioni borroughsiane di “Queer” in cui l’immagine aveva una grammatura importante, Guadagnino lascia che in “After the Hunt” (presentato Fuori Concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia) sia la parola a prendere il sopravvento. Il risultato è ambivalente: la scrittura è, a tratti, estenuante anche se, in fondo, è la cifra stessa di un film che vuole essere sofisticato e nega ai suoi stessi personaggi una linearità nell’azione che impedisce di comprenderli fino in fondo e di amplificare le contraddizioni di cui sono intrisi.
Sul piano narrativo, questo rappresenta un freno, soprattutto nel finale quando il film “scivola” (pur dopo due ore) in modo quasi disarmante. Rimane la sensazione di un film molto “teorico”, sicuramente alleniano (ma senza, ovviamente, ironie e nevrosi), comunque sotto le aspettative di un autore a cui gioverebbe una “decantazione” più lunga. (Marco Contino)
Voto: 6
***
Amata
Regia: Elisa Amoruso
Cast: Tecla Insolia, Miriam Leone, Stefano Accorsi
Durata: 96’

Due storie di maternità. Due vicende di fragilità e dolore che la regista Elisa Amoruso fonde nel suo ultimo film “Amata”. Sulle spalle, il bagaglio del cinema documentario da cui proviene l’autrice, da sempre attenta alla marginalità, alle voci più flebili.
Nella finzione di “Amata” questo sguardo si percepisce ma non si sente davvero, sovrastato da un eccesso di scrittura e da un simbolismo che si polarizza nei contrasti, anche di stile, ma genera, infine, una forte sensazione di squilibrio.
Da una parte c’è Nunzia (Tecla Insolia: sempre preziosa e intensa), studentessa fuori sede, con pochi soldi in tasca e una gravidanza indesiderata che, all’improvviso, piomba a terra le sue certezze e i suoi sogni. Dall’altra c’è Maddalena (una livida Miriam Leone), al suo ennesimo aborto, alle prese con un corpo che “respinge” la maternità e un desiderio ossessivo che rischia di distruggere la relazione con il marito pianista (Stefano Accorsi) in una sorta di torre d’avorio, metafora sin troppo esplicita del senso di vuoto e della mancanza di autentico calore nella vita di entrambi.
Nell’incrocio ideale tra queste due donne, sospeso tra un sincero realismo e un melò troppo programmatico e d’ambiente, si avvertono l’urgenza dei temi trattati e i gangli sociali della vicenda ispirata a una storia vera (il parto in anonimato, le culle per la vita ancora troppo stigmatizzate, una certa invadenza del personale sanitario nell’indirizzare le scelte della donna, lo scarto tra essere e sentirsi madre).
Ma quando il racconto dovrebbe spingersi in profondità sembra quasi che Elisa Amoruso ne abbia timore, lasciandosi sopraffare dalle tentazioni didascaliche e dal registro retorico come se, alla fine, il melodramma fagocitasse proprio quel cinema del reale di cui, invece, la regista saprebbe tenere saldamente le redini. Finale amniotico (con una “transizione”, per vero, un po’ grossolana) che dà forma al titolo del film: con quell’“amata” che è participio nella forma passata ma anche aggettivo di una vita accolta e cresciuta. (Marco Contino)
Voto: 5,5
***
Eddington
Regia: Ari Aster
Cast: Joaquim Phoenix, Pedro Pascal, Emma Stone
Durata: 145’

Dopo l’horror, le sette, il perturbante, le allucinazioni interiori, gli schiocchi di glottide e i legami familiari malati, il regista (ormai definito di culto ma non si sa bene perché) Ari Aster plana sulla commedia nera e sociale con un film - Eddington - che è, al tempo stesso, la sublimazione del suo cinema (le paranoie di “Hereditary”, “Midsommar” e di “Beau ha paura” da domestiche, comunitarie e intime si fanno sociali e contemporanee) ma anche la sua inevitabile implosione.
Siamo nella cittadina del titolo, New Messico, in piena pandemia da coronavirus. Lo sceriffo Joe Cross (Joaquin Phoenix) si ritrova, improvvisamente, “in guerra”: contro l’uso delle mascherine, contro il sindaco uscente Ted Garcia (Pedro Pascal) che sfida alle elezioni più per motivi personali che politici (c’è di mezzo la moglie di Cross - Emma Stone - dal fragilissimo equilibrio psichico) e contro una popolazione locale sempre più alienata e violenta, fomentata dall’eco mediatica delle rivolte seguite all’uccisione di George Floyd, da movimenti suprematisti bianchi, da guru e santoni che diffondono sul web ogni genere di teoria cospirazionista e dalla costruzione di un mega data center nel bel mezzo del deserto e della confinante nazione indiana.
Si intuisce, sin dalla trama, lo sguardo bulimico e incontrollato di Aster che culmina in un finale iper-violento da videogame. Certo, non sfugge che il caos narrativo sia speculare a quello politico e sociale di un paese impazzito. Ma è tutto troppo, di grana grossa, lontanissimo dal cinema grottesco dei fratelli Coen (che sono più di una suggestione) perché lì dove le fondamenta sono solide (la destrutturazione dei generi, nei Coen, passa attraverso una conoscenza profonda e cinefila del cinema classico), in “Eddington” la costruzione sembra solo “appoggiata” sulla terra dura del deserto, pronta a implodere a causa del suo stesso autore e del suo sguardo tellurico. (Marco Contino)
Voto: 5
***
Squali
Regia: Daniele Barbiero
Cast: James Franco, Lorenzo Zurzolo, Francesco Centorame, Ginevra Francesconi
Durata: 107’

Uno dei topoi più classici del cinema riguarda il coming of age, in particolare la formazione che gli esami di maturità provocano prima e dopo il fatidico giorno dell’orale, compreso il viaggio di gruppo in giro per l’Europa.
È su questo solco che si infila anche il film di Daniele Barbiero, prolifico regista di corti e di serie tv, qui all’esordio nel lungometraggio.
“Squali” è girato anche in Veneto, nel Delta del Po e in Polesine, tra Porto Tolle, Selva di Crispino e Villamarzana ed ha una curiosa omonimia con un altro film, sempre ambientato dalle nostre parti, nel veronese, di Alberto Rizzi, uscito un anno fa.
Nel film di Barbiero si narra di un gruppetto di ragazzi un po’ sperduti che si affaccia all’età adulta con le solite paranoie, paure e dubbi sul futuro. Anche per questo uno di loro elabora una app che aiuta i neomaturati a scegliere il proprio destino universitario: sembra un gioco, ma la app è notata subito da un americano, Robert Price (James Franco), fondatore di un incubatore di start-up e in men che non si dica Max (Lorenzo Zurolo) accetta e parte in treno per Roma, lasciando gli amici in partenza per Barcellona.
E fin qui, a parte un dialetto improbabile tra bassa padovana, rovigotto e pseudo-ruzante, va bene. Ma da questo momento in poi il film inanella purtroppo una serie di luoghi comuni, di cliché già visti, narrati in modo semplice, ma sin troppo ingenuo. Non manca nulla: l’infatuazione del giovane di provincia verso il tycoon dai modi sbrigativi, la sua dedizione alla causa dell’incubatore, il successo veloce e immediato, il tentativo di coinvolgere l’amico depresso che si risolve per lui in un ulteriore fallimento, presagio di tragedia, il ritorno a casa e la scoperta che gli squali non stanno solo nell’oceano. C’è tutto, ma in un modo troppo prevedibile e, alla fine, scontato. (Michele Gottardi)
Voto: 5
***
Per te
Regia: Alessandro Aronadio
Cast: Teresa Saponangelo, Edoardo Leo, Javier Francesco Leoni, Giorgio Montanini, Eleonora Giovanardi
Durata: 115’

Nel 2021 un adolescente di undici anni di Concordia Sagittaria, in provincia di Venezia, Mattia Piccoli, è stato insignito dal presidente Sergio Mattarella al Quirinale del titolo di “Alfiere della Repubblica “per l'amore e la cura con cui segue quotidianamente la malattia del padre e lo aiuta a contrastarla”. Il film racconta quegli anni terribili e il lavoro della famiglia e di Mattia per riuscire a far restare desto il più possibile il padre, ritardando l’oblio dell’Alzheimer.
Paolo (Edoardo Leo), poco più che quarantenne, comincia lentamente a perdere pezzi della sua memoria. Ma, proprio mentre il mondo intorno inizia a sfumare, lui sceglie di restare vicino a ciò che conta davvero, forte anche dell’amore della moglie Michela (Teresa Saponangelo).
Insieme al piccolo figlio Mattia (Javier Francesco Leoni) intraprende un percorso fatto di quotidianità condivisa, risate improvvise e silenzi che parlano, come le foto di famiglia appese alla parete. Il film di Aronadio segue questo percorso verso il buio dell’Alzheimer, che per quanto rallentato, arriva al finale già scritto, lento, quanto inesorabile, come evidenziano le immagini finali dei titoli di coda, attraverso un servizio dell’Ansa del 2021.
Il film trasuda di una carica affettiva e amorosa di fondo, unica chance, unica soluzione per far fronte al buio della malattia e della memoria. Aronadio ha il tocco leggero, talvolta al limite dell’ingenuità, ma fa riemergere i buoni sentimenti, lì dove si erano surgelati, sotto il pelo dell’acqua della vita borghese. (Michele Gottardi)
Voto: 6
Riproduzione riservata © il Nord Est