Saba, i cinquant’anni d “Ernesto”
L’anniversario della prima uscita di un piccolo classico da riscoprire

Cinquant’anni fa arrivava in libreria un piccolo romanzo postumo che avrebbe rivelato un volto inedito di Umberto Saba. Si intitolava “Ernesto” e portava nel cuore la storia di un ragazzo triestino alla soglia dell’età adulta, diviso tra desiderio, vergogna e bisogno di verità. Sabato 6 dicembre, in occasione del giorno esatto dell’uscita del libro, la Libreria Antiquaria Umberto Saba di Trieste ricorderà l’anniversario allestendo una vetrina a tema. Maurizio Battista presenterà una rassegna di edizioni italiane e straniere di “Ernesto” ed esporrà i manifesti dell’omonimo film che Salvatore Samperi girò nel 1979.

A mezzo secolo di distanza, questo testo breve e incompiuto resta un capolavoro fragile e coraggioso, un gioiello nascosto della nostra letteratura. Ernesto, secondo le parole dello stesso Saba, era «un ragazzo vissuto a Trieste nel 1898, quando il mondo era meraviglioso». Anni in cui Umberto Poli saliva, esitante e incerto, i gradini di una giovinezza di turbamenti emotivi, grumo tenero e incandescente che mezzo secolo dopo avrebbe dato origine a “Ernesto”.
Saba lo scrisse nel 1953 in una clinica romana, durante una tregua del suo mal d’esistere, e poi lo rifinì e concluse a Trieste. Lo definì subito «un libro che non potrà mai essere pubblicato», non tanto per i fatti narrati, quanto per «il linguaggio che vi si parla». In effetti “Ernesto” è una confessione laica e disarmante: il sedicenne protagonista scopre l’attrazione per un uomo adulto in un percorso di formazione che unisce scoperta e confusione, candore e turbamento.
Il romanzo rimase incompiuto, ma la sua interruzione ha il sapore di una necessità, non di una mancanza. La storia si ferma prima che Ernesto diventi adulto, come se Saba sapesse che la giovinezza non ha un vero epilogo, ma resta una condizione sospesa, fatta di domande più che di risposte. Nel ragazzo che esplora la propria identità e i propri desideri si riflette Saba, cresciuto in una Trieste irrequieta, tra assenze familiari e solitudini. Ma Saba non scrive per confessarsi: scrive per capire, per dare alla propria esperienza la dignità di una verità condivisibile. Linuccia si spese per farlo pubblicare, ma il libro uscì solo nel 1975, presso Einaudi, con in copertina un disegno di Carlo Levi, il compagno di Linuccia.
Riletto oggi, “Ernesto” colpisce per la sua modernità. L’omosessualità, tema ancora tabù negli anni Cinquanta, è trattata con un rispetto e una naturalezza sorprendenti. Non c’è scandalo né moralismo: c’è solo la vita, nella sua complessità. È un romanzo che parla di libertà interiore, di ricerca di sé, di un’umanità che non ha bisogno di etichette. A cinquant’anni dalla pubblicazione, l’opera postuma di Saba appare come un piccolo classico da riscoprire. In poche pagine, racchiude il nucleo della sua poetica: la fiducia nella sincerità, l’attenzione al quotidiano, la capacità di dire il vero senza difese. È la stessa voce che anima le sue poesie, ma qui si fa racconto, dialogo, vita concreta.
Alla sua uscita il libro non ebbe un grande successo. Per capirne il motivo bisogna riandare all’atmosfera di quegli anni, di liberazione sessuale, certo, di leggi come quelle sul divorzio e sull’aborto che arrivavano dall’onda lunga del Sessantotto. Però quella libertà sessuale andava inscritta nella politica; erano anni in cui la dimensione pubblica aveva invaso la sfera del privato, colonizzando ogni spinta intima: tutto doveva essere condiviso sotto il segno di un processo storico che, anche attraverso il sesso, avrebbe portato a una diversa concezione dei rapporti sociali. Non c’era spazio per chi viveva la propria sessualità in modo privato. In quella temperie anche l’omosessualità doveva essere politica e i tormenti privati di un adolescente di inizio Novecento, scritti con delicatezza negli anni Cinquanta da un poeta scomparso da tempo, non potevano incrociare i cortei e i tamburi di chi, come il Fronte omosessuali rivoluzionari di Angelo Pezzana, si batteva sotto l’egida marxista per rivendicare con orgoglio le proprie scelte sessuali. Però dopo mezzo secolo, la voce di Ernesto non ha perso intensità. In quel ragazzo che cerca il suo posto nel mondo, e in quell’autore che lo osserva con affetto e dolore, ritroviamo la stessa domanda che attraversa tutta l’opera di Saba: come si diventa sé stessi senza smettere di essere innocenti?
Dal libro Salvatore Samperi ne fece un film, che uscì nel 1979, con Michele Placido nella parte del facchino che inizia il giovane protagonista, interpretazione che gli valse l’Orso d’argento alla mostra di Berlino. Il film fu accolto abbastanza bene dalla critica, ma Il Piccolo non fu benevolo. Secondo il recensore la città era stata dipinta con colori troppo caldi e mediterranei. Il film non rendeva quello che Saba era riuscito a fare di Trieste: più che uno sfondo, una protagonista silenziosa. Città di confine e di mescolanze, con il suo dialetto e i suoi contrasti sociali, la città riflette la stessa ambiguità del giovane Ernesto, sospeso tra mondi diversi. Saba la racconta con un linguaggio vivo, che alterna l’italiano al parlato triestino, mescolando poesia e realismo. In questo intreccio linguistico si riconosce la sua ricerca più profonda: catturare la verità dell’esperienza umana, senza abbellimenti e senza finzioni. —
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