Gino Cecchettin: «Così la musica può aiutare a cambiare il vocabolario sulle donne»

Una lettera e due vademecum scritti dal papà di Giulia Cecchettin e rivolti a cantanti e case discografiche: «Capisco la ribellione, ma la musica veicoli un linguaggio giusto. Le canzoni e le serie tv proiettano i ragazzi in stereotipi generazionali»

Laura Berlinghieri
Gino Cecchettin e alle sue spalle un ritratto della figlia Giulia
Gino Cecchettin e alle sue spalle un ritratto della figlia Giulia

Parla di quando, ragazzo, ascoltava le canzoni dei Black Sabbath, senza capirne il significato. E dell’urgenza che sentono i giovani, di tutte le generazioni, di portare ogni concetto all’estremo. Ma non lo fa – non lo fa mai – con intento accusatorio. I ragazzi li capisce, si immedesima in loro e poi si mette a disposizione, per aiutare. Per fare capire perché, per innescare una rivoluzione, sia necessario partire anche dalle parole.

«Perché i cantanti, gli attori, i giornalisti hanno un seguito enorme. E veicolare certi messaggi può essere pericoloso. Ne ho parlato anche con i miei figli. Non è una censura, che non ci deve essere mai. Ma non deve esserci nemmeno offesa» dice Gino Cecchettin, che poi aggiunge: «Non biasimo i ragazzi e la loro voglia di ribellione, ma noi adulti abbiamo il compito di spiegare loro che l’amore deve essere preferito all’odio, anche nelle canzoni. Mi rivolgo agli artisti: preferite le parole d’affetto a quelle di rabbia, le parole di comprensione a quelle di biasimo, l’empatia alla violenza».

Spiega così la lettera e i vademecum, uno ai cantanti e uno alle case discografiche, scritti di suo pugno, alla richiesta di Aperyshow – evento di beneficenza in corso ad Arsego, nel Padovano – di avere la fondazione Giulia come partner. «Quando ho letto l’elenco degli artisti che si sarebbero esibiti, mi sono reso conto che alcuni di loro, in passato, avevano scritto dei testi misogini e non rispettosi delle donne».

Perché nei testi di questi cantanti si legge anche questo: «Bevo una tequila / E dopo glielo pongo a ritmo», firmato Boro (con Elettra Lamborghini), oppure «Io sono un maschio / Cucina la donna / Io c’ho fame / Cucina la donna» di Bello Figo. «Avremmo potuto negare la partnership – dice Gino – ma abbiamo preferito dare un messaggio, per arrivare a tutti: ragazzi e artisti».

Un messaggio: una lettera e due vademecum. «Uno per i cantanti, con consigli su come evitare stereotipi, romanticizzazione della violenza o linguaggi tossici nei testi delle canzoni, e un vademecum per le case discografiche, per promuovere le pari opportunità, la sicurezza e l’inclusione nel mondo della musica».

Perché un nuovo vocabolario è il terreno necessario per questa rivoluzione. Che però è costretta a subire la mortificazione delle scelte della politica: è di martedì 29 aprile la notizia dell’interrogazione della senatrice Erika Stefani, capogruppo della Lega in commissione Giustizia, alla ministra Roccella, a proposito dei 15 centri antiviolenza veneti a rischio chiusura, con l’entrata in vigore dei nuovi requisiti fissati dalla conferenza Stato-Regioni.

«Sono strutture che salvano vite – dice Cecchettin – Se dovessero chiudere, sarebbe un disastro. Mi appello alle istituzioni e alla politica, perché facciano tutto quello che è in loro potere per evitarlo». Ed è svilente parlare delle parole, immaginare un cambiamento, quando a separarci dal traguardo è una gincana di burocrazie, opposte da chi, i problemi, dovrebbe aiutare a risolverli. «Ma è importante che noi adulti continuiamo a lavorare, non ci dobbiamo rassegnare all’idea di una violenza che attrae» dice Gino.

Si riferisce ai testi delle canzoni trap. Alle scene delle serie tv che esibiscono riti e gesti, che poi vediamo emulati nelle strade delle nostre città, soprattutto dai più giovani. «Forse funziona come con le sigarette, che fanno sentire grandi» ragiona il papà di Giulia, «E immaginare di avere un’arma in tasca fa sentire i ragazzi qualcosa che non sono. La musica o le serie tv li aiutano a diventare lo stereotipo a cui un’intera generazione aspira».

E ogni generazione ha il suo stereotipo: si pensi a Colpa d’Alfredo di Vasco o a Bella senz’anima di Cocciante. «Ma proprio tanti degli artisti che, in passato, avevano scritto testi simili, ora hanno imboccato un percorso diverso. E ogni canzone va contestualizzata nel suo tempo» dice Gino. E il tempo di oggi è quello della musica in tasca e dei concerti da record. Del tutto a portata di un clic. Perché «questi cantanti hanno un seguito enorme. E i loro testi, dati in pasto ai giovanissimi e cantati a squarciagola, possono essere pericolosi».

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