L’Europa insegue nuovi mercati: le trattative aperte e quanto valgono

Il pesce grosso si chiama Mercosur: 284 milioni di consumatori sudamericani da corteggiare. Poi si lavora ad altri sette negoziati commerciali: tutte valide alternative all’export negli Usa

Marco ZatterinMarco Zatterin
Container in un porto a Qingdao, nella provincia di Shandong, Cina orientale
Container in un porto a Qingdao, nella provincia di Shandong, Cina orientale

Fra aprile e giugno l’economia italiana è andata in rosso (-0,1%) e il contributo al Pil della domanda estera, cioè delle esportazioni, è diminuito di quasi un punto. È il frutto manifesto della nuova sconquassante politica commerciale di Donald Trump, un dato che non può che creare allarme perché la frenata precede i dazi entrati in vigore da poco.

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Donald Trump assieme a J. D. Vance

Ora che le merci europee sono sottoposte a un pedaggio scomposto e problematico da gestire del 15 per cento, è più che sicuro che le vendite oltreoceano siano destinate a calare. Così, posta l’inutilità di continuare a dire che l’intesa con Washington è un perfido affare, i governi dell’Unione sono chiamati a riflettere sulle due strade che possono limitare il danno.

Devono facilitare i traffici nel mercato interno attraverso l’eliminazione delle restanti barriere amministrative. E stringere sugli accordi di libero scambio destinati a trovare nuovi clienti per i nostri prodotti, dai farmaci al prosecco, passando per i macchinari industriali e i salumi.

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Il secondo obiettivo è più semplice del primo, se non altro perché non deve incidere sulle burocrazie locali dei Ventisette e vedersela con precetti divergenti capaci di resistere a lungo a ogni benvenuto tentativo di riforma. Dopo aver sigillato l’intesa con il Cile, l’Ue si ritrova otto negoziati commerciali aperti e guarda a un futuro con minori barriere partendo da un volume di export che, nei casi in questione, vale oltre 250 miliardi di euro.

La convinzione è che, limitando gli intralci nell’ambito di una cornice di regole che garantiscano equità e norme sanitarie precise, la definizione delle intese possa incrementare di circa 80 miliardi di euro l’anno l’export europeo verso quei Paesi.

Il pesce grosso si chiama Mercosur, è il trattato che l’Ue ha firmato in dicembre con Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, una presa da 56 miliardi di merci e 28 miliardi di servizi venduti (dati 2022). Riguarda un mercato da 284 milioni di consumatori che pagano un dazio del 27 per cento sul vino e del 18 per cento su pasta e biscotti. «Bisogna portare immediatamente al voto l’accordo Ue-Mercosur che ha un potenziale di sette miliardi», avverte il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini.

Si potrebbe fare subito, se cadessero le resistenze di Francia e Italia, Paesi dove il conservatorismo delle “potenti” lobby agricole ha una profonda influenza sul governo.

«Credo che le ultime difficoltà individuate da alcuni Paesi europei saranno superate – sottolinea il ministro degli Esteri, Antonio Tajani –. Stiamo trattando garanzie per le nostre imprese agricole, in particolare a tutela di produzioni di qualità come riso e carne».

Il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, assicura di «non avere pregiudizi» e lascia supporre che il muro delle lobby si stia sgretolando davanti agli effetti del tornado commerciale americano. «Credo che il Mercosur presenti più opportunità che criticità – ha detto –. Penso al vino tra i settori legati all’agricoltura: è il dato da cui partire».

Un esempio aggiuntivo lo racconta una fonte europea che rivela come il Brasile, per la prima volta e in piena autonomia, abbia fatto un’offerta unilaterale per abbassare ai minimi il tributo richiesto sugli spaghetti. Nonostante le difficoltà economiche dei carioca, c’è una classe media emergente che vuole continuare a mangiare bene.

Riecco Orsini. «Dobbiamo spiegare ai nostri imprenditori che il vero antidoto è cercare nuovi mercati – incalza l’industriale –. Sappiamo che non avranno la stessa capacità di spesa degli Stati Uniti, ma io dico che è fondamentale il Mercosur, l’intesa con l’India, rafforzare i rapporti con Emirati e Arabia Saudita».

Certo, tutto questo non ribilancia l’America, verso la quale nel 2024 l’Ue ha esportato per 531,6 miliardi, generando un avanzo record di 198,2. Nonostante i dazi e l’incertezza a essi legata, è ovvio che i traffici anche in futuro non verranno azzerati (le stime del danno vanno fra il 10 e il 20%), però si può anche sperare che la Corte d’Appello Usa fermi il presidentissimo e la fatwa commerciale non duri per sempre. Nel frattempo, un ricollocamento strategico delle merci può mitigare le perdite e sostenere l’economia.

India e Messico sono due pezzi grossi con cui si colloquia – l’accordo di Delhi con il Regno Unito fa ben sperare – è una cinquantina di miliardi di interscambio che promette bene, soprattutto se si dimostrerà giusta la previsione secondo cui «gli indiani, in palese crescita reddituale e demografica, supereranno la Cina». Il loro mercato resta tuttavia fortemente frammentato, con bassi standard ambientali e lavorativi, questione che concerne anche i messicani. Si spera di farcela l’anno prossimo, come per l’Australia.

La cosa giusta sarebbe massimizzare l’efficacia delle nuove relazioni e accelerare le ratifiche, senza smettere di negoziare con gli Usa per avere altre esenzioni, partendo da automotive, alcol e farmaceutica. Lo Zio Sam è un partner importante, smista il 20 per cento dell’export europeo (dato 2024). Una parte dei flussi persi può essere compensata dai nuovi patti. Bisognerebbe poi avere l’avvedutezza di badare agli interessi generali, del resto i numeri del Pil ricordano che i dazi danneggiano tutti.

Bonaparte risulta aver detto che «ogni ora del tempo perduto è una probabilità di danno per l’avvenire». Non è sempre un maestro virtuoso da seguire, il vecchio Napò, ma su questo aveva senz’altro ragione.

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