Dazi, nel patto con l’Europa sarà l’America a rimetterci

Una buona parte delle vendite mancate potrà essere reindirizzata verso nuovi acquirenti: perché il patto Ue-Usa nuocerà più a Trump che a Bruxelles

Marco ZatterinMarco Zatterin
Donald Trump (Epa)
Donald Trump (Epa)

Dice il saggio che lamentarsi non risolve il problema. Certo i dazi americani sono una sciagura, il 15% unilaterale imposto da Donald Trump alle esportazioni europee è ingiustificato e, potenzialmente, danneggerà lui e noi. Tuttavia, alla lunga, potrebbero nuocere più agli States. Come? Ci sono soluzioni.

Se, in primo luogo, il sistema produttivo continentale saprà fare squadra sotto la bandiera a dodici stelle e partirà alla ricerca di mercati emergenti, una buona parte delle vendite mancate potrà essere reindirizzata verso nuovi acquirenti in tempi relativamente brevi. Non solo.

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La redazione
La stretta di mano tra la presidente della Commissione europea e il presidente americano

Un patto fra produttori, distributori e investitori delle due sponde dell’Oceano potrebbe generare la pressione necessaria a far cambiare idea all’inquilino della Casa Bianca, uno che ha dimostrato di non essere indifferente al tornaconto sperperato. Non è una stagione facile, va ammesso. A maggior ragione, è il caso di rimboccarsi le maniche.

L’Italia è il primo esportatore in volume di vino verso gli Stati Uniti (188 milioni di litri nel primo semestre 2025) e il secondo in valore dopo la Francia (1,05 miliardi di euro nello stesso periodo), dati da cui si evince che i cugini transalpini vendono meno bottiglie e incassano di più, il che suggerisce accendere intanto un faro sulla strategia del nostro export.

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Marco ZatterinMarco Zatterin
(foto Epa)

L’Unione italiana vini dice di aspettarsi una perdita di 317 milioni causata dai dazi. Allo stesso tempo, avverte che «per i partner commerciali d’oltreoceano il mancato profitto salirà fino a quasi 1,7 miliardi di dollari». È un punto interessante. In America ci sono decine di aziende e di fondi che, grazie a Trump, vedranno gli incassi in pericolo.

Prendiamo Constellation Brands, quello della birra Corona e delle cantine Ruffino 1887, gruppo stellare e quotato che difficilmente esporrà la foto di Trump nel quartier generale: le ultime prospettive di crescita sono velate da parecchie ombre, anche dopo l’alleggerimento del portafoglio-etichette di nettare d’uva avvenuto in aprile. Non bastasse, il 39% della birra che vende viaggia in lattine di alluminio, materia prima oggetto di dazi ponderosi. Vicenda complessa, una delle tante.

Chiedetelo al gruppo di Napa Valley dell’imprenditore Gaylon Lawrence Jr. che tre anni fa ha acquisito il Deuxième Cru Classé di Margaux. O al miliardario Stanley Kroenke, un mini Trump che possiede il pregiato Domaine Bonneau du Martray oltre che l’Arsenal di Londra. Al Fondo Platinum Equity che ha fatto sua l’abruzzese Fantini. O alla Pernod Ricard che ha in pancia numerosi investitori statunitensi e ha anche visto passare Black Rock. Segnalazione analoga per le francesi Lvmh (Moët & Chandon, Veuve Clicquot, Dom Pérignon) e Rémy Cointreau, da sempre destinazioni interessanti per il capitale a stelle e strisce.

Come esiste il conflitto di interessi, può sbocciare una pace di interessi. Ovvero un’alleanza con gli americani per far capire all’amministrazione Maga come la mera logica del disavanzo commerciale non è sufficiente a punire questo o quel comparto. L’Ue può far la forza.

In caso di fallimento del dialogo, i 317 milioni di perdite possono sempre essere recuperati, in tutto o in parte, trovando nuovi mercati, meglio se col coordinamento europeo. Per The Donald sarebbe uno smacco, perché ci lascerebbero le penne solo gli americani. Va da sé che non è facile. Al punto in cui siamo, però, restare fermi a chiedere aiuti pubblici sarebbe come raddoppiarsi i dazi da soli.

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