Regionali, Meloni in manovra davanti a tre trappole: ecco quali

Da mesi di liti sterili emerge una coalizione poco coesa su cui gravano i nodi più intricati: il Veneto e il futuro di Zaia

Carlo BertiniCarlo Bertini

Dopo tutta l’estate passata a dirimere la querelle sul Veneto, mettendo in dubbio le posizioni di partenza che vedevano la Lega favorita e gli alleati obbligati a fare buon viso gioco, cosa resterebbe sul terreno se il vertice di centrodestra previsto in settimana partorisse la travagliata decisione di assegnare giustappunto il Veneto a un candidato del Carroccio?

Tornando al punto di partenza di tre mesi fa? Resterebbe solo una sfilza di articoli e retroscena poco edificanti per una coalizione che si professa compatta: interviste e scontri a distanza, recriminazioni dei sodali di Meloni, sempre pronti a rinfacciare il 37% di FdI alle europee.

Paso doble

Argomento inoppugnabile quello dei rapporti di forza, se messo in pratica con la conseguente attribuzione della candidatura al partito più votato. Ma se invece si traduce solo in una sparata di grida al vento, la rivendicazione di una primazia nelle urne produce solo un buffo «paso doble», avanti e di lato, balletto senza costrutto, foriero solo di una coda velenosa anche dopo una (scontata) vittoria. Un tutti contro tutti che difficilmente porterà a replicare il clima che ha circondato per un decennio il governatorato del Doge.

Insomma, ci sono tutte le premesse per partire col piede sbagliato, a detrimento delle urgenze e dei bisogni dei veneti che si attendono una ripresa a spron battuto dell’azione di governo regionale. E questo per chiunque approderà a Palazzo Balbi, perché la ferita aperta nei palazzi romani riverserà i suoi miasmi fino a sopra gli argini del Po. Con un’aggravante: se finisse come sembra, i Fratelli d’Italia non avrebbero fatto un grande affare a mettere il veto su una lista Zaia per ritrovarsi poi il suo nome nel simbolo della Lega, così da rafforzarne l’appeal.

Un Carroccio “a pedalata assistita” potrebbe scalare più agilmente vette inarrivabili prima, al punto da fare il pieno e insidiare il primato del partito della premier. E se è vero che senza una lista Zaia, FdI avrà più agio ad accaparrarsi assessorati e poltrone, con una Lega meno distante a urne chiuse faticherà a spuntarla nei dossier cruciali.

I rischi di un doge vagante

Visto che siamo in argomento, piccolo focus su Zaia: di qui a breve Giorgia Meloni dovrà provvedere al suo futuro, con una sistemazione consona al suo status. Che nelle percezioni dell’interessato è pari a quello di un ministro di prima fascia o al presidente di una dei grandi enti partecipati dallo Stato, come l’Eni, che dovrà rinnovare il suo stato maggiore a primavera 2026. Se il Doge non ricevesse adeguata soddisfazione c’è da scommettere che con la crescente insofferenza dei leghisti doc per il “vannaccismo” debordante di marca sovranista, a qualcuno venga in mente di rinverdire le ragioni dell’autonomismo e spingere Zaia a scalzare il Capitano dal trono, con tutte le conseguenze del caso.

I tuoni già si sentono in lontananza dietro le montagne, ma senza un leader forte nessuno farà nulla. Tradotto, Zaia vacante sarebbe una mina piazzata davanti al portone di Palazzo Chigi. Un rischio che la premier non dovrebbe sottovalutare. Anche perché nella fantomatica ipotesi di una Lega a guida Zaia, la campagna di Giorgia per la conquista del voto cattolico e moderato subirebbe la concorrenza di un leader incline a far breccia nei cuori delle casalinghe e di un Carroccio pronto a cambiare muta e a lasciare sulla sabbia la pelle iper nazionalista voluta da Salvini.

Il bastione delle Marche

Infine c’è un nervo scoperto che potrebbe causare un fastidioso dolore a una premier che rischia ritrovarsi come unica dei segretari della maggioranza ad aver perso la sua regione. La battaglia nelle Marche guidate dal meloniano Francesco Acquaroli, in svantaggio di due punti sullo sfidante Matteo Ricci, diventa quindi cruciale, ma è tutta in salita. Meloni la deve vincere altrimenti il test di medio termine per il governo, che coinvolge 17 milioni di italiani, finirebbe con un Salvini più forte per aver difeso la sua regione, idem Antonio Tajani che vincerà con Roberto Occhiuto in Calabria e lei nel ruolo di piccola fiammiferaia. E una eventuale sconfitta marchigiana accrediterebbe l’immagine di una classe dirigente inconsistente, meno strutturata di quella degli alleati.

Nulla di buono insomma. 

Riproduzione riservata © il Nord Est