Referendum e condanna: l’Ungheria difende Dodik

Il ministro degli esteri Szijjártó: «Deve decidere il popolo, non Berlino o Bruxelles». L’Unione europea bacchetta Slovacchia e Ungheria sull’import di gas naturale russo

Stefano Giantin
Milorad Dodik e Péter Szijjártó (Epa)
Milorad Dodik e Péter Szijjártó (Epa)

In passato, bacchettate da Bruxelles su questioni cruciali, quali Stato di diritto, libertà dei media, diritti Lgbt, trattamento dei migranti ed energia. Posizioni non allineate a quelle Ue sulla guerra in Ucraina, aiuti a Kiev e l’atteggiamento da tenere verso Russia e Pechino. E ora un altro fronte si apre, rischiando di gettare ulteriore benzina sul fuoco nei Balcani, già sull’orlo di una pericolosissima escalation.

Il fronte riguarda l’Ungheria del premier Viktor Orban, sempre più coinvolta – per aperta ambiguità – nella crisi che sta da tempo investendo la Bosnia-Erzegovina.

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Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska, regione della Bosnia a maggioranza serba

La Bosnia, ricordiamo, è stata ulteriormente scossa ad agosto dalla conferma della condanna del leader serbo-bosniaco Milorad Dodik, dichiarato decaduto dalla carica di presidente.

Il Paese guarda con preoccupazione al doppio voto d’autunno, il controverso referendum del 25 ottobre, fortemente voluto dalle autorità al potere a Banja Luka per confermare il ruolo di Dodik e rigettare le sentenze nei suoi confronti. E all’incognita del 23 novembre, elezioni presidenziali anticipate per trovare il successore di Dodik, che il leader serbo-bosniaco ha chiesto agli elettori di boicottare.

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Il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik

Con tutti gli ingredienti per la tempesta perfetta già sul tavolo, a peggiorare il quadro è arrivata ora l’Ungheria, Paese Ue e Nato, entrata a gamba tesa nella crisi, esprimendo il sostegno a spada tratta proprio Dodik e schierandosi a favore dell’imminente referendum.

«Lo decide il popolo chi deve guidare la Republika Srpska, non Budapest, Bruxelles o Berlino», ha sentenziato il ministro degli Esteri magiaro, Péter Szijjártó, con Dodik a Budapest. Budapest, di certo, «rispetterà» sempre le decisioni del popolo serbo-bosniaco, «continuando a rafforzare una cooperazione basata sul rispetto reciproco», ha aggiunto il ministro.

Se il concetto non fosse stato sufficientemente chiaro, Szijjártó ha allora ribadito che l’Ungheria riconosce «la volontà popolare» che «sceglie i suoi dirigenti in modo democratico attraverso le elezioni e appoggia i politici eletti, come è il caso del presidente Dodik», un leader «patriottico».

Parole, quelle di Szijjártó, che fanno il paio con quelle pronunciate dallo stesso Orban dopo la conferma della condanna di Dodik. Dodik è divenuto un paria «perché non vuol ballare al suono della musica di Bruxelles», ha detto il premier magiaro.

Il sostegno di Budapest rischia di incoraggiare ulteriormente Dodik ad accelerare sulla strada della crisi. Lo ha fatto già a Budapest, dove ha parlato di Bosnia sotto «occupazione straniera» e ha rievocato l’opzione indipendenza, «piaccia o meno a von der Leyen».

Antitetica la posizione dell’Europa e dell’Occidente. Il referendum nella Rs è illegale e non sarà riconosciuto, ha avvisato ieri la nemesi di Dodik, l’Alto rappresentante Christian Schmidt. E pure la Nato si è fatta sentire, dopo che Dodik ha evocato l’aiuto di Mosca per togliere il mandato alla sempre più importante missione militare Eufor. «Sosteniamo con forza la sovranità e l’integrità territoriale della Bosnia, ogni minaccia di secessione è pericolosa», ha avvisato la Nato. Nato di cui la stessa Ungheria fa parte.

La Bosnia rischia di diventare l’ennesimo “dossier” aperto a dividere Budapest dal blocco euro-atlantico. Un altro è quello dei rapporti con la Cina, con lo stesso Szijjártó che ha fatto sapere che l’Ungheria preme per «una cooperazione Est-Ovest», oltre che per maggiori investimenti di Pechino.

E un altro ancora riguarda la Russia, con Budapest e Belgrado che stanno accelerando per la realizzazione del controverso oleodotto per portare greggio russo dall’Ungheria nel Paese balcanico, malgrado i niet di Bruxelles. Che ha ricordato che quel 20% di gas e petrolio russo che ancora arriva nella Ue è “colpa” esclusivamente di Slovacchia e Ungheria, chiedendo a Budapest di chiudere i rubinetti in ingresso.

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