Oltre il tennis: Djokovic e i messaggi per gli studenti che protestano in Serbia

Mentre osserva le proteste, il campione serbo compie piccoli gesti e appare come un uomo che studia il futuro: l’eroe nazionale diventa figura fragile e potente insieme

Fabrizio BrancoliFabrizio Brancoli
Novak Djokovic (Epa)
Novak Djokovic (Epa)

Novak Djokovic sta attraversando gli Us Open 2025 con il suo solito sentimento polarizzato: fuori dal campo mostra la calma delle leggende, in campo il furore di chi si alimenta di agonismo, oltre che di classe.

Un po’ padre affettuoso, un po’ testimonial, un po’ guerriero; la racchetta in mano, i trattamenti a un fisico sempre più provato ma ancora reattivo, lo sguardo che scannerizza ogni dettaglio. Ha superato molti turni e all’orizzonte ha la semifinale contro Carlos Alcaraz, stasera, uno dei match che decideranno il torneo.

Gli applausi, i fischi, il frastuono quasi indifferente che gli americani riservano allo sport del tennis, che altrove è liturgico e teatrale, rimbalzano sugli spalti. Ma qualcosa è cambiato: ora che la carriera di Nole è fatalmente nella parabola dei titoli di coda – qualsiasi sia la scadenza del suo destino di campione supremo – la gente finalmente si è innamorata di lui. Ma non c’è solo il tennis nel suo cuore.

Il suo pensiero parallelo si dirige verso Belgrado, verso Novi Sad, verso le strade chiuse dai manifestanti o ai manifestanti. E i simboli, sempre, così cari all’approccio socioculturale serbo: le mani rosse dipinte sui muri, gli slogan, le frasi chiave, i volti dei giovani che chiedono giustizia.

Gioca gli Us Open ma c’è un appuntamento del circuito che lo riguarda strettamente, e che cambia del tutto. Il torneo che porta il suo nome e la sua paternità organizzativa, il 250 mila dollari Atp di Belgrado, non si giocherà più lì. Dal 2 all’8 novembre le palline voleranno all’Oaka Arena di Atene, un espatrio logistico che sulla carta sembra marginale, ma che in realtà ha risvolti politici.

Il Piccolo racconta le proteste studentesche in Serbia sin dal primo giorno. E questo primo giorno è il 1° novembre 2024. Una tettoia appena ricostruita nella stazione di Novi Sad crolla, uccidendo sedici persone. Lavori eseguiti in fretta, approssimativi, sotto la cura e la responsabilità di contrattisti cinesi.

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L’accusa è che quel cantiere sia un po’ il simbolo di un sistema corruttivo. L’insofferenza e la ribellione esplodono nelle università, nelle scuole e nelle strade.

Gli studenti bloccano le lezioni, interrompono il traffico per quindici minuti ogni giorno alla stessa ora del crollo (le 11.52), impongono il loro silenzio rituale alle principali città. Mani rosse, simbolo della protesta, diventano segno di sfida: il governo prova a zittire le voci, ma le mani continuano a salire. Centomila persone scendono in strada più volte e non è più solo una partita degli studenti: ci sono agricoltori e insegnanti, l’onda sale.

In questo quadro, Djokovic, come altri fuoriclasse dello sport nazionale, non resta in disparte. Compie piccoli gesti ma, fatti da lui – un mito e un’icona, una madonna laica non di rado esposta sul piedistallo dalla politica – sono molto visibili. A gennaio dedica una vittoria a una studentessa ferita durante le manifestazioni.

A marzo, quando centinaia di migliaia di persone marciano per Belgrado, posta foto e parole di incoraggiamento sui social, riconoscendo nella gioventù la forza più autentica del Paese. A dicembre, durante il derby di basket di Belgrado tra la sua Stella Rossa e il Partizan, indossa una felpa con la scritta “Students are champions”. Ogni gesto è piccolo ma potente: di nuovo, come in tanti altri casi della storia, la politica entra nello sport e lo sport entra nella politica.

E Djokovic – imperatore del tennis, recordman di ogni tempo di vittorie Slam – non è un outsider rispetto al nazionalismo serbo. La sua identità pubblica è stata strutturata anche sul senso di appartenenza e sull’orgoglio nazionale: un’architettura emotiva fortissima. Slogan che “assegnano” il Kosovo alla Serbia, partecipazioni a iniziative culturali e sportive che esaltano la storia e il pensiero serbo, amicizie con figure centrali del nazionalismo balcanico.

L’improvvisa contraddizione – un concetto così tipico dei Balcani – non sta nel suo nazionalismo, che è reale e riconosciuto, ma nella sua scelta di schierarsi contro un governo nazionalista. Come spesso accade in queste terre complesse, qui le categorie euroccidentali di analisi politica si intrecciano e si confondono, le linee di demarcazione da segmenti retti diventano curvi e sinusoidi. Confini concettuali che non corrispondono a quelli che siamo abituati a tracciare.

Djokovic è più che un idolo, in Serbia. È un vessillo. Il presidente Aleksandar Vučić, fino a poco tempo prima pronto a inaugurare un museo in onore di Nole Djokovic – tuttora annunciato in vista dell’Expo 2027 – resta in un silenzio rabbioso. I media vicini al governo cancellano il suo nome, insinuano sue origini kosovare, criticano la residenza a Montecarlo.

Provano a ridurre l’eroe nazionale a problema, il mito a minaccia. Lo prendono a pallate. E lui risponde colpendo quelle palle, scaraventandole nel campo avverso: supporta pubblicamente le proteste, porta la politica sui campi di Wimbledon. Trasforma la sua figura di atleta in strumenti di osservazione e denuncia.

Il torneo di Belgrado, organizzato dalla famiglia Djokovic, trova così una nuova casa ad Atene. Non è questione di punti Atp, non è solo tennis: è distanza dalla pressione politica, protezione dell’identità. Incontri con il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis, discussioni a giugno e agosto, persino in luoghi simbolici come il santuario ortodosso dell’isola di Tinos, tessono una rete invisibile tra sport e diplomazia, tra strategia personale e politica internazionale.

La Grecia gli offre il cosiddetto “visto d’oro”, introdotto nel 2013: un documento che permette a cittadini stranieri di ottenere la residenza senza dover risiedere fisicamente nel Paese, a patto di investire tra 250.000 e 800.000 euro in proprietà immobiliari greche, oppure depositare 500.000 euro in conti bancari locali o in bond governativi. Montecarlo è già casa, e il vantaggio fiscale da solo non basta a spiegare questa cosa. C’è altro. Un motivo più profondo, che spinge Djokovic a guardare oltre il confine serbo.

Mentre osserva le piazze di contestazione della sua terra come spettatore interessato – verrebbe da dire anche come tifoso – Djokovic appare anche come un uomo che studia il futuro. Qualcuno sussurra che studi da leader politico. Conosce la popolarità come pochi altri, sa misurare gli equilibri tra élite e base, tra comunicazione e messaggio. La partita del futuro potrebbe essere diversa da qualsiasi altra e la posta in gioco non è un trofeo o una classifica internazionale.

L’eroe nazionale diventa figura fragile e potente insieme: nel mirino e allo stesso tempo in regia. Novak Djokovic continua a giocare, ma non solo a tennis. Nello specchio si riflettono Belgrado e Atene, Montecarlo e Novi Sad, il pubblico e la piazza, lo sport e la politica, per continuare a muovere i pezzi sulla scacchiera della realtà.

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