Il dibattito sull’eutanasia e l’enigmatico senso del nostro vivere

Preferiamo non nominare la “morte” quando il discorso si approssima alla nostra esperienza. Forse, per non essere bloccati, possiamo fare ricorso all’idea di desiderio

Pier Aldo Rovatti
La triestina Martina Oppelli: il suo caso ha riacceso il dibattito sul fine vita
La triestina Martina Oppelli: il suo caso ha riacceso il dibattito sul fine vita

È una domanda che risuona da millenni: «Qual è il senso della vita?». Ancora oggi – dobbiamo pur dirlo – non abbiamo una risposta persuasiva, anzi la risposta si presenta sempre enigmatica e – non senza ragione – siamo portati a pensare che il senso della vita abbia proprio a che fare con questa enigmaticità, che dunque andrebbe mantenuta ed esplorata.

La discussione attorno al cosiddetto “fine vita”, rilanciata in questi giorni da un caso triestino, è un problema di civiltà che ogni volta siamo portati a rimettere in campo per salvaguardare il diritto di ciascuno di decidere – vivendo il peso delle sofferenze – un’interruzione della propria vita attraverso la possibilità di una “buona” morte. Ed ecco comparire l’altra faccia della questione, la “fine”.

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Martina Oppelli (Lasorte)

Una questione che, a partire dalla parola stessa, preferiamo lasciare in ombra, accennare, cercare di abbellire attraverso parole come “eutanasia”. Certo, constatiamo ogni giorno, all’interno delle cronache, che i mezzi di informazione ci mettono di continuo sotto gli occhi la parola “morte”: ce l’abbiamo molto spesso nella testa perché, prima o poi, ci toccherà personalmente. Ma preferiamo, come ho fatto nel titolo di questo articolo e come verifichiamo nella stessa espressione “fine vita”, non nominare la “morte” quando il discorso si approssima alla nostra esperienza.

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Martina Oppelli (Lasorte)

Non tutti amiamo i funerali, anche quelli che riguardano le persone a noi vicine o vicinissime, perché magari pensiamo che il dolore per la morte di una persona cara non debba diventare “pubblico”, anche se comprendiamo come la partecipazione collettiva contenga aspetti positivi, se non altro una stratificazione del ricordo. Poi, però, l’enigma della morte, che è la faccia inguardabile dell’enigma della vita, vorremmo che restasse qualcosa di privato, qualcosa che appunto agisce come una privazione, un pezzo di noi che abbiamo perduto definitivamente, qualcosa – aggiungo – che ci tocca in prima persona mentre vorremmo tenerla lontana il più possibile.

Molti, in tale scenario inquietante, fanno entrare la parola “sacro” con tutto il suo peso storico, slegato però dal contesto religioso, un termine che certamente ci investe ancora ma che spesso utilizziamo, magari senza volerlo, per smarcarci da ciò che non riusciamo né a dire né a pensare con chiarezza.

Oggi la “morte”, quella che ciascuno di noi vorrebbe lasciare da parte, ha l’aspetto di qualcosa di impensabile, come se fosse innominabile e non dovessimo neppure tentare di rinominarla: infatti non ne vogliamo sapere perché non sappiamo che cosa dire. Perciò tutto il nostro parlare riguarda ovviamente la vita e il suo enigmatico “senso”, un senso che non riusciamo a raccogliere in una unità e che è diverso per ciascuno di noi: un senso che sembra risultare, come tale, incontenibile, comunque non traducibile in parole e forme di comportamento. Vorremmo contenerlo, definirlo, valutarne le caratteristiche, esaminarlo, così come si osserva e si studia un oggetto, ma non possiamo e, se crediamo di poterlo possedere, rischiamo di farcelo sfuggire: la nostra storia è la testimonianza concreta di questa incontenibilità.

Forse, per non essere bloccati nella sua enigmaticità, possiamo fare ricorso a quell’idea di desiderio che la psicoanalisi ci mette a disposizione (una psicoanalisi come quella lavorata, per esempio, da Massimo Recalcati, che in più occasioni è tornato su tale questione).

L’incontenibilità del senso della vita può forse venire commisurata con la permanenza con cui la spinta del desiderio muove l’andamento delle nostre esistenze. Quando questa spinta agisce, la vita mantiene un suo senso, quando il desiderio tace la nostra vita lo perde.

È però soltanto un indizio dell’enigmaticità del senso del nostro vivere. Anche l’esperienza del desiderio è qualcosa che, oltre a essere individuale, non è rinchiudibile in un concetto, deborda di qua e di là, mantiene sempre un fondo di enigmaticità. Comunque risulta un indicatore importante che riesce a riempire parzialmente l’idea di “senso della vita”, che ognuno cerca di costruire per poter vivere, giorno dopo giorno.

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