Martina, Laura e non solo: perché è il tempo di dire “basta” sul fine vita
Oppelli e Santi se ne sono andate con dignità e con un accorato richiamo: ma le loro voci saranno soffocate dai bizantinismi di uno stucchevole dibattito politico


Silenzio, si muore: nel silenzio di strazianti solitudini delle vittime; nel silenzio di una politica che da anni si sottrae al dovere di fare una legge sul fine vita, malgrado reiterati e severi richiami della Corte Costituzionale. Giovedì è toccato a Martina Oppelli, 50enne triestina, andata a cercare in Svizzera la chiusura di un calvario che le era stato negato in Italia.
Appena dieci giorni fa, era stata preceduta da Laura Santi, sua coetanea perugina, riuscita a usufruire della normativa sul suicidio assistito. In entrambi i casi, ci sono arrivate solo attraverso un tormentato percorso di anni, in cui la precarietà delle regole e l’ottusità della burocrazia hanno reso ancor più pesante e nefasta la sofferenza loro e di chi stava loro vicino.
Ed è davvero tempo di dire: basta. Di dirlo a un Parlamento che quando e dove vuole fa passare provvedimenti di comodo per i partiti, magari di notte; ma che da anni aggira un tema di fondo come la dignità del morire. E lo sta facendo anche in queste settimane, con le ennesime riprovevoli schermaglie, mentre Laura e Martina sono andate spegnendosi, sommando al tormento fisico la tribolazione di una logorante battaglia.
Entrambe tuttavia se ne sono andate con dignità, senza recriminazioni, ma con un accorato richiamo. Ha chiesto Martina: “Fate una legge che abbia un senso e tenga in considerazione ogni sofferenza, perché ogni dolore è assoluto nel momento in cui viene vissuto e va rispettato”. Ha esortato Laura: “Fate una buona legge che rispetti i malati e i loro bisogni, qualsiasi vita resta degna di essere vissuta anche nelle condizioni più estreme, ma siamo noi e solo noi a dover scegliere”.
Né l’una né l’altra verranno ascoltate: le loro voci accorate saranno soffocate dai bizantinismi di uno stucchevole dibattito politico che alla dignità di chi soffre antepone i meschini calcoli basati sul consenso elettorale. Sentiremo le reiterate litanìe, tipo invocare l’alternativa delle cure palliative: continuando a ignorare quanto un’ottima legge in materia continui a venire poco e male applicata a ben quindici anni dalla sua emanazione.
Martina e Laura non sono casi isolati, come le cronache testimoniano ormai da tempo; la loro salita al calvario ha conosciuto gli stessi tormenti di tanti altri malati prima di loro. “Vivere come vivo io è una tortura”, ha cercato invano di spiegare Martina fino all’ultimo; “La mia è stata una quotidianità dolorosa, spoglia, feroce, una sofferenza in crescita giorno dopo giorno”, ha tentato altrettanto invano di far capire Laura. Intorno a loro, intanto, si faceva il deserto; interrotto solo da pochi gesti esemplari, come quello di monsignor Ivan Maffeis, vescovo di Perugia.
Il quale è andato a sedersi al capezzale di Laura senza farle la morale, ma limitandosi a dirle: “Chi sta fuori da queste sofferenze deve inchinarsi a voi”. E quando è morta ha scritto poche ma incisive parole: “Questo è il giorno del silenzio, del dolore per lo spreco che la morte porta con sé, e della riconoscenza per il tratto di strada condiviso”.
Scusate il disturbo, sono state le ultime parole di Martina. Nessuna scusa: chiunque tenga alla dignità della vita, DEVE continuare a disturbare chi si sottrae al proprio dovere, girandosi dall’altra parte.
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