Martina, Laura e non solo: perché è il tempo di dire “basta” sul fine vita

Oppelli e Santi se ne sono andate con dignità e con un accorato richiamo: ma le loro voci saranno soffocate dai bizantinismi di uno stucchevole dibattito politico

Francesco JoriFrancesco Jori
Martina Oppelli (Lasorte)
Martina Oppelli (Lasorte)

Silenzio, si muore: nel silenzio di strazianti solitudini delle vittime; nel silenzio di una politica che da anni si sottrae al dovere di fare una legge sul fine vita, malgrado reiterati e severi richiami della Corte Costituzionale. Giovedì è toccato a Martina Oppelli, 50enne triestina, andata a cercare in Svizzera la chiusura di un calvario che le era stato negato in Italia.

Martina Oppelli è morta: ha scelto il suicidio assistito in Svizzera
La redazione
Martina Oppelli nel video registrato in Svizzera

Appena dieci giorni fa, era stata preceduta da Laura Santi, sua coetanea perugina, riuscita a usufruire della normativa sul suicidio assistito. In entrambi i casi, ci sono arrivate solo attraverso un tormentato percorso di anni, in cui la precarietà delle regole e l’ottusità della burocrazia hanno reso ancor più pesante e nefasta la sofferenza loro e di chi stava loro vicino.

Ed è davvero tempo di dire: basta. Di dirlo a un Parlamento che quando e dove vuole fa passare provvedimenti di comodo per i partiti, magari di notte; ma che da anni aggira un tema di fondo come la dignità del morire. E lo sta facendo anche in queste settimane, con le ennesime riprovevoli schermaglie, mentre Laura e Martina sono andate spegnendosi, sommando al tormento fisico la tribolazione di una logorante battaglia.

L'ultimo video appello di Martina Oppelli, prima di morire: "Fate una legge che abbia senso"

Entrambe tuttavia se ne sono andate con dignità, senza recriminazioni, ma con un accorato richiamo. Ha chiesto Martina: “Fate una legge che abbia un senso e tenga in considerazione ogni sofferenza, perché ogni dolore è assoluto nel momento in cui viene vissuto e va rispettato”. Ha esortato Laura: “Fate una buona legge che rispetti i malati e i loro bisogni, qualsiasi vita resta degna di essere vissuta anche nelle condizioni più estreme, ma siamo noi e solo noi a dover scegliere”.

Né l’una né l’altra verranno ascoltate: le loro voci accorate saranno soffocate dai bizantinismi di uno stucchevole dibattito politico che alla dignità di chi soffre antepone i meschini calcoli basati sul consenso elettorale. Sentiremo le reiterate litanìe, tipo invocare l’alternativa delle cure palliative: continuando a ignorare quanto un’ottima legge in materia continui a venire poco e male applicata a ben quindici anni dalla sua emanazione.

Martina e Laura non sono casi isolati, come le cronache testimoniano ormai da tempo; la loro salita al calvario ha conosciuto gli stessi tormenti di tanti altri malati prima di loro. “Vivere come vivo io è una tortura”, ha cercato invano di spiegare Martina fino all’ultimo; “La mia è stata una quotidianità dolorosa, spoglia, feroce, una sofferenza in crescita giorno dopo giorno”, ha tentato altrettanto invano di far capire Laura. Intorno a loro, intanto, si faceva il deserto; interrotto solo da pochi gesti esemplari, come quello di monsignor Ivan Maffeis, vescovo di Perugia.

Il quale è andato a sedersi al capezzale di Laura senza farle la morale, ma limitandosi a dirle: “Chi sta fuori da queste sofferenze deve inchinarsi a voi”. E quando è morta ha scritto poche ma incisive parole: “Questo è il giorno del silenzio, del dolore per lo spreco che la morte porta con sé, e della riconoscenza per il tratto di strada condiviso”.

Scusate il disturbo, sono state le ultime parole di Martina. Nessuna scusa: chiunque tenga alla dignità della vita, DEVE continuare a disturbare chi si sottrae al proprio dovere, girandosi dall’altra parte.

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