Il Veneto pensi alle sfide del dopo-Zaia da condividere con Roma e Bruxelles
Si spegne la spinta del Pnrr: dal 2026 le Regioni torneranno a fare i conti con il patto di stabilità. La nuova politica industriale? Servirà una programmazione locale concordata con Stato e Ue


Nell’avvicinarci alle elezioni regionali per il Veneto l’attenzione mediatica, dopo essersi rivolta per un lungo periodo al tema del terzo mandato che avrebbe consentito la ricandidatura del presidente Luca Zaia, si è rivolta alla identificazione delle coalizioni, scontata per il centrodestra, meno, ma conclusasi con l‘encomiabile successo del campo largo, per il centrosinistra. Centrosinistra che ha già trovato il suo candidato presidente nell’ex sindaco di Treviso Giovanni Manildo, mentre il centrodestra dovrebbe trovarlo a breve.
Si può dunque cominciare a interrogarsi sul «che fare?». Domanda che la classe dirigente, e non solo politica, veneta avrebbe dovuto porsi da tempo perché bisognosa di risposte, non facili, e perché da esse dipende il futuro del Veneto per molti anni a venire. La legislatura regionale che si aprirà alla fine di quest’anno non sarà solo la prima del dopo Zaia, ma quella, drammatica per la finanza pubblica, del dopo Pnrr e delle sue risorse finanziarie straordinarie.
Dal 2026 la finanza derivata, quella dei trasferimenti statali alle Regioni, tornerà a fare i conti con il patto europeo di stabilità e crescita e con l’enorme debito pubblico italiano che gli sta dietro.
Il ricorso a risorse fiscali proprie, addizionali Irpef o altro, sarà inevitabile: per farne che cosa sarà il primo argomento da affrontare per farle accettare. Ma la prossima legislatura regionale sarà soprattutto quella coincidente con gli anni nei quali dovrà prender forma il modello di sviluppo «neo-industriale, globalmente connesso e capace di affrontare le sfide legate a tecnologia, capitale umano, transizione generazionale e competitività sistemica», per dirla con le parole della Fondazione Nord Est.
Le istituzioni della Regione che usciranno dalle elezioni del prossimo autunno dovranno gestire, più che la fine di un’era, l’inizio di una grande sfida. Una sfida che richiederà una rivoluzione copernicana nelle priorità e nella postura politica di governo e consiglio regionali.
La sfida è, come si è detto, quella di far superare con successo all’economia e alla società venete le transizioni tecnologica, climatica e geo-economica/politica che la incalzano a una velocità mai vista. Di farlo per recuperare almeno una parte della prosperità perduta negli anni di declinante produttività e competitività nazionale ed europea, nonostante le performance venete relativamente migliori.
Una prosperità da estendere ai giovani, alle donne e alle aree meno fortunate. E di farlo - e questo è forse il più importante tratto distintivo della nuova era - assumendosi la propria parte di responsabilità, pubblica, nella definizione della visione, dei traguardi collettivi ai quali si punta, e nell’assicurare i beni pubblici necessari per far sì che imprese, famiglie e istituzioni raggiungano i traguardi condivisi.
In tempi di transizioni incalzanti e veloci il pendolo si sposta «dal mercato allo Stato», solo le istituzioni pubbliche (europee, nazionali, regionali e locali) possono/devono ridurre i rischi per imprese e famiglie degli altrimenti inevitabili «fallimenti del mercato».
E farlo assumendosi la responsabilità delle scelte strategiche di medio- lungo periodo da rendere credibili anche tramite la fornitura dei beni pubblici (i capitali infrastrutturale - fisico e immateriale -, umano, finanziario, istituzionale e relazionale) che condizionano l’attuazione di quelle scelte.
Un compito di orientamento strategico, di programmazione che gli addetti ai lavori oggi chiamano di politica industriale, che viene da qualche tempo invocato a ogni livello di governo (europeo, nazionale, regionale e locale). Il che ne segnala la priorità urgente , ma anche la difficoltà di incastrare tra loro le politiche industriali, le programmazioni, di diverso livello, come in un insieme di matrioske dove la più grande, quella europea, contiene la statale, che contiene quella regionale, che contiene quella locale.
Il primo compito dell’amministrazione regionale del dopo Zaia dovrà essere definire e attuare la politica industriale propria della matrioska regionale, quella che vincola le politiche locali, ma è regolata da quelle nazionali ed europee.
Un compito che sposta l’asse della politica regionale dalla sola distribuzione del reddito anche alla sua produzione, da una oculata gestione dei fondi statali per erogare servizi sanitari, sociali, di trasporto, di difesa dalle calamità naturali e così via, alla formulazione e difesa in sede nazionale ed europea delle priorità regionali in materia di obiettivi strategici e di beni pubblici da assicurare in coerenza con il modello di sviluppo che intende perseguire.
Ma questa è una politica regionale che aumenta il suo spazio di autonomia solo se si attrezza per far valere i suoi interessi e i suoi punti di vista nelle politiche delle matrioske statali e sovranazionali. Gianni Agnelli, l’avvocato, diceva che la sua Fiat non si governava da Torino, bensì da Roma e Bruxelles.
Lo stesso varrà per la Regione Veneto del prossimo quinquennio. Lavorare più a Roma e Bruxelles che a Venezia per fare in modo di far riconoscere le priorità venete tra quelle nazionali ed europee.
Se avessimo lavorato in questa direzione oggi, per fare solo un esempio relativo alle infrastrutture di trasporto, avremmo completata la tratta Verona-Vicenza-Padova, il “ponte di Messina” del Veneto, dell’alta velocità Milano-Venezia promessa dallo Stato ai veneti sin dagli anni ’80 dello scorso secolo. Ma questo impone un radicale cambiamento di postura: prendere atto che in un sistema politico-istituzionale così complesso e caricato di compiti di orientamento strategico la strada del «far da sé» non porta da nessuna parte.
La ricerca delle «forme e condizioni particolari di autonomia» poteva avere senso dieci anni fa, ma la storia ha dimostrato che questa non è la strada che porta lo Stato a concedere maggiori significative risorse alle singole regioni perché le amministrino come vogliono.
Più efficace era, ed è, sicuramente la «programmazione in concorso con lo Stato» che la Regione Veneto aveva assunto come suo metodo di intervento con l’art. 5 del suo primo statuto del 1971; in più assumendo il diritto/dovere di partecipare «come soggetto autonomo alla programmazione nazionale».
Metodo che la sbornia indipendentista della Lega aveva imposto di cancellare con la revisione del 2012 dello statuto regionale del 1971 per contrapporsi a quello Stato nazionale che, ironia del destino, è invece la sola stella polare del suo alleato odierno, Fratelli d’Italia.
Oggi che la programmazione europea e nazionale è tornata, anche se la chiamano politica industriale, Il Veneto potrebbe/dovrebbe tornare allo spirito, se non alla lettera, dell’art. 5 dello statuto del 1971 per far valere davvero la sua autonomia strategica. E poi mettersi a lavorare di conseguenza.
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