Sui dazi si profila una rischiosa trattativa a oltranza

I dazi non sono solo una leva con cui agire sul passivo commerciale, ma un’arma politica: Trump è un sovrano per il quale vale solo un corpo di regole, il suo

Marco ZatterinMarco Zatterin
(foto Epa)
(foto Epa)

Almeno una cosa è peggiore dell’accordo che l’Ue ha firmato col presidente Trump e che ha portato i dazi sull’import americano dal Vecchio Mondo al 15 per cento. È la prospettiva, quotata bassa pure dai bookmaker ottimisti, che si debba trattare ancora e che il destabilizzante negoziato possa durare quanto il mandato di The Donald.

Questo, perché la Casa Bianca ostenta ogni intenzione, e presunto interesse, a sfasciare il commercio globale per imporsi al centro del quadrante, senza badare agli effetti di azioni e minacce. «È mezzanotte – ha scritto sui social l’uomo dello Studio Ovale –. Miliardi di dollari affluiscono verso gli Stati Uniti». In realtà, per adesso di biglietti verdi in atterraggio oltre Atlantico se ne vedono pochi. E poi non era nemmeno mezzanotte.

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La sfuriata preventiva di Trump contro l’Ue appare la conseguenza della situazione che un portavoce della Commissione ha spiegato bene. Devono aver informato il presidente che i 600 miliardi di dollari di investimenti industriali europei del patto di Aberdeen, e i 750 miliardi acquisti energetici in tre anni di cui si è parlato il 27 luglio, sono «intenzioni aggregate», come del resto non poteva che essere, visto che la Commissione è l’esecutivo Ue e non comanda l’industria. Ha capito che denari possono arrivare male e tardi. Imprese a parte, le reti comunitarie dovrebbero triplicare gli acquisti di un gas naturale liquido che costa, trasporto compreso, parecchio più caro: tenteranno di evitarlo sinché possibile.

Verrà il giorno in cui il Presidentissimo farà i conti, realizzerà che il piatto piange e ripartirà con le intemerate, facili da provocare sul terreno ambiguo della Grande Guerra commerciale. La Commissione, ad esempio, dice che microchip e farmaci vanno al 15 per cento, mentre a Washington non confermano.

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È diventato palese che i dazi non sono solo una leva con cui agire sul passivo commerciale a stelle e strisce, ma un’arma politica: si veda alla voce “India”, super tassata perché vende armi alla Russia (comportamento disputabile, va da sé, ma è un altro campionato). Trump gioca a fare il Re del Mondo che incarna ordine e giustizia, desideroso di amministrare gli affari umani e gli equilibri cosmici. È un sovrano per il quale vale solo un corpo di regole, il suo.

Tutto ciò fomenta cattivi presagi e propone altre prove. Capita che il traballante Brasile chieda una consultazione a tre con India e Cina perché vuole un patto per far pressione su Trump e aprire nuove vie di scambio. Che l’Europa divisa, accettando i dazi senza metterne, mini il suo export, almeno se non troverà clienti alternative, e intanto paghi pegno. E che gli States rischino l’inflazione al punto che suona curiosa l’esultanza del segretario al Commercio perché “ci dirigiamo verso i 50 miliardi di entrate da dazi al mese” (+240 rispetto al 2024); quelli sono soldi degli americani e la loro crisi può essere la nostra.

I consumatori Usa si candidano a essere i primi a subire il conflitto del Trade, pronti a trascinarsi gli altri dietro. Fanno la figura dell’asino protagonista di una fiaba morale polacca di inizio Seicento: invitato a un matrimonio, l’animale si balocca a lungo sulle pietanze che pensa di gustare alla celebrazione, salvo scoprire che lo aspettano solo per trasportare acqua e legna dalle stalle alla cucina. È come la festa di Donald. Invita il presidente, mangia la sua corte e il conto lo trovi al supermercato.

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