Il sogno infranto dell’Europa unita: meglio fare un gran reset
Senza un vero slancio politico e ideali condivisi, l’Ue è ferma: serve un nuovo inizio con chi ci crede davvero


Sotto il ponte della metropolitana di Hackney Wick una coppia di londinesi raccoglie firme per resettare il mondo che a loro pare impazzito. «Off e poi on», suggeriscono non senza ironia. «Lo faccio sempre col pc, se non va, spengo e riaccendo», sorride a denti stretti il diplomatico di lungo corso che passa di lì; lo facciamo tutti, gli dico. Di solito funziona, spiega lui, che è un federalista convinto, e «penso che dovremmo usare la stessa terapia per l’Europa, spegnere e riaccendere per provare a ripartire».
Ammette che sarebbe una scelta grave, che si rischia di perdere tutto. Tuttavia, argomenta, «a parte qualche sognatore come me», è evidente che nessuno vuole l’Unione più forte e integrata, nessuna capitale davvero, nemmeno chi lavora ogni giorno alla costruzione di una casa in cui restare insieme e crescere prosperi. Al punto in cui siamo, non si va da nessuna parte, insiste: sarebbe meglio ammettere il fallimento e ricominciare con chi è sinceramente motivato a difendere l’ideale che ha garantito 80 anni di pace, nonostante tutto, per trasformarlo in un processo di concordia, solidarietà e sicurezza permanente.
Servono spiegazioni che l’alto funzionario elabora rapido. In sintesi, concede, con Donald Trump abbiamo calato le brache sui dazi per mancanza di intenti condivisi, così è inutile prendersela con Ursula von der Leyen che ha fatto il massimo che la delega avuta dai Ventisette – evitare guerre commerciali – le consentiva, siglando un’intesa costosa e umiliante. Sul fronte ucraino, dove avremmo dovuto difendere i valori continentali e l’integrità dei diritti di un popolo, procediamo stancamente e con risultati inferiori al potenziale, dimostrando che non esiste una politica estera comune (abbiamo un alto rappresentante che è un portavoce, non un ministro). Per non parlare di Gaza, altra terribile crisi dove l’Europa latita per la gioia dei suoi nemici. «Non ci siamo», sbotta. Poi comincia a contare.
I sovranisti, ragiona, se la giocano sull’ombelico e guadagnano consenso a ogni sbandata. I Paesi europeisti avanzano a scialbi passettini: nemmeno loro ci credono, fanno ammuina, senza volersi fondere concretamente. Un’Unione che abbia senso richiede invece una grande carica ideale che oggi non c’è più. Manca lo spirito. Siamo ancora nell’altro secolo. Quando fu chiuso il trattato di Lisbona, nel 2007, si escluse tutta la parte simbolica, l’inno europeo come il seggio all’Onu. Senza questa carica, non si è pronti a prendere grandi decisioni su difesa, estero, fiscalità. Per questo è inutile far finta di niente. Le difficoltà evidenti sono una colpa collettiva.
E allora? La voce si fa seria. Rompiamo tutto, dice. Avviamo il Gran Reset. Teniamo le libere circolazioni e la moneta, trasformiamo la comunità in un club di libero scambio (tipo Efta). Su questa base, si rifonda l’Unione solo con chi non ha dubbi. Pochi Paesi, magari Spagna, Francia, Germania, Belgio. È la geografia del Sacro Romano Impero di Carlo V. La Sacra Unione europea, così avrebbe senso, con la forza ritrovata dell’ideale. Chi c’è, c’è. Gli altri avranno il mercato. Si può fare? Chissà? Anche se la domanda è «dove sarebbe l’Italia?». Coi vicini di casa o in preda alla solita sindrome da staterello? O ancora colonia distaccata di Trumplandia? Non succederà mai con ogni probabilità, confessa il diplomatico, che fra le poche certezze, giura di averne una inattaccabile. Ed è che, così come stiamo, non potrà che andare peggio.
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