I dazi interni che frenano l’economia europea

Il 70% delle barriere commerciali europee non deriva da vincoli tecnici o burocratici, ma dal fatto che ogni governo nazionale protegge gelosamente le proprie prerogative, anche quando questo danneggia l'interesse collettivo europeo

Paolo Costa
Il presidente Usa Donald Trump e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen
Il presidente Usa Donald Trump e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen

Abbiamo sostenuto su queste colonne (Guardare ad Est per superare la scossa dei dazi, 31 luglio 2025) che la migliore risposta al patto leonino sui dazi Usa imposto da Donald Trump sia quello di rivolgersi ad altre aree economiche – soprattutto quelle che a guideranno la crescita del Pil mondiale nei prossimi anni: Cina, India, Arabia Saudita ed altri campioni del Sud globale — costruendo con esse accordi che creino una rete multilaterale di rapporti che riducano l'impatto dell'isolazionismo Usa.

Una strada obbligata per l'Unione europea e, soprattutto, per economie come quella italiana, “costrette” ad esportare per importare le materie prime e le risorse energetiche che madre natura non ha dato loro.

Ciò non toglie che, anche per correggere un modello di sviluppo che rischia di farci cadere nella “trappola delle tecnologie mature”, la politica del riallineamento delle nostre esportazioni ai nuovi mercati globali si deve accompagnare a quella dell'ulteriore approfondimento ed allargamento del mercato interno europeo.

Tema da sempre al centro del dibattito Ue, che nel mercato interno continua a trovare il suo core business, e recentemente rimesso a fuoco dal Rapporto Letta del 2024 (“Molto più che un mercato”) commissionato dalla stessa Commissione europea.

La novità, effetto laterale dello schiaffo trumpiano, è che il confronto Usa-Ue ha reso evidente il costo del mancato completamento del mercato unico interno visto, questa è la novità retorica, come il persistere di “dazi interni” altrettanto letali di quelli Usa.

Il dato – calcolato dal Fmi e rilanciato da Mario Draghi – è che le barriere, pur non tariffarie, interne tra i 27 paesi Ue equivalgono a dazi del 44% sui beni (tre volte più alti di quelli tra gli stati americani ) che divengono del 110% sui servizi.

La Presidente del Consiglio, ma anche i ministri Salvini e Giorgetti, pur con toni e modi diversi hanno identificato la causa dei dazi interni nell'iperburocratismo di Bruxelles (Meloni) che impone il più grande dazio che le imprese italiane stanno pagando, sotto forma di leggi, regolamenti, divieti, ritardi, vincoli (Salvini). Dazi interni autoimposti dalla Ue (Giorgetti) e che quindi la stessa può e deve rimuovere.

La verità, scomoda soprattutto per i sovranisti, è tutta diversa: il 70% delle barriere commerciali europee non deriva da vincoli tecnici o burocratici, ma dal fatto che ogni governo nazionale protegge gelosamente le proprie prerogative, anche quando questo danneggia l'interesse collettivo europeo.

L'esempio forse più clamoroso riguarda le telecomunicazioni. Come può reggere un mercato diviso in 27 sottomercati nazionali dove ogni operatore europeo serve in media 5 milioni di clienti, contro i 460 milioni in Cina ei 110 negli Stati Uniti? Eppure Francia e Germania proteggono i propri campioni nazionali nelle telecomunicazioni, impedendo le fusioni transfrontaliere che potrebbero creare giganti europei competitivi a livello globale.

Nel settore automobilistico, per fare un altro esempio, un'auto omologata in Germania deve essere ri-testata in Francia per differenze normative minime. Ancora più paradossale il caso dei farmaci. La stessa molecola, approvata dall'Agenzia europea del farmaco, può costare tre volte di più in Germania che in Polonia.

Non per differenze di qualità o efficacia, ma perché ogni Paese mantiene gelosamente il controllo sui propri prezzi sanitari. Nel settore alimentare - e qui anche l'Italia ci mette del suo - invece di un sistema unico di etichettatura nutrizionale, abbiamo una babele di standard nazionali che confonde i consumatori e aumenta i costi per le aziende.

Poi c'è la grande questione del mercato dei capitali: l'Unione europea possiede 33.000 miliardi di euro di risparmi privati ma non riesce a organizzare un mercato integrato perché il Lussemburgo guida la resistenza contro la supervisione centralizzata di quei mercati per mantenere il proprio status di paradiso fiscale.

Per non parlare delle professioni per le quali un avvocato italiano non può praticare liberamente in Francia senza superare esami specifici, un notaio tedesco non può rogitare atti in Italia, un medico polacco deve rifare tirocinio in Germania, uno studio di architettura deve avere partner locali in ogni Paese, un consulente finanziario francese non può servire clienti italiani senza partnership locali, un giornalista italiano non può iscriversi all'ordine francese, un professore di matematica tedesco non può insegnare in Italia.

E, per carità di patria, non approfondiamo sui tassisti e sui servizi balneari. Ma anche dove i 27 sono d'accordo di aprire i mercati andiamo a rilento.

La rete transeuropea dei trasporti non è ancora realizzata impedendo di fatto a un produttore polacco di mandare le sue merci in Portogallo e viceversa. L'elenco potrebbe continuare al ungo. Resta il fatto che sempre il Fondo monetario internazionale stima che questa eliminazione delle barriere interne porterebbe ad un aumento della produttività europea di quasi il 7%. Significa 700-800 miliardi di euro di ricchezza aggiuntiva ogni anno: più del Pil dell'Olanda.

I dazi interni alla Ue sono dannosi, dunque, quasi come quelli di Trump. I dati sono chiari: non è solo la burocrazia di Bruxelles a frenare il mercato unico, ma il sovranismo miope delle capitali nazionali. Ogni giorno che passa senza integrazione è ricchezza persa, competitività erosa, futuro ipotecato. I dazi che danneggiano l'economia europea non sono solo quelli che arrivano da Washington. Molti, sì, sono prodotti in casa, nei parlamenti e nei ministri di 27 Paesi che preferiscono rimanere nani separati piuttosto che diventare un gigante unito.

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