Dazi, il rischio di una sinistra anti Europa

La presidente von der Leyen rappresenta lo specchio della debolezza generale della Ue. Al coro delle critiche partecipa anche il Pd, che vanta però una tradizione fortemente europeista sin dalle origini

Massimiliano PanarariMassimiliano Panarari
Ursula von der Leyen
Ursula von der Leyen

Lo sport più praticato alle latitudini della politica nazionale in queste ore è il cannoneggiamento contro la Commissione Ue e la sua presidente. Non con gli stessi toni, né all’insegna della stessa agenda e cahier des doléances, ma con qualche significativa convergenza.

Di nuovo, non negli obiettivi, ma nell’individuazione di quello che, per certi versi, appare un bersaglio fin troppo scontato.

E, dunque, stupisce non poco che al coro partecipi anche il Pd, segnale di quello che rischia di configurarsi come un mutamento di rotta rispetto a un solido radicamento europeista (forgiato da figure come Altiero Spinelli).

Beninteso, non che manchino buoni motivi per muovere delle critiche all’esecutivo europeo su vari argomenti e, in particolare, alla sua presidente, propensa a una gestione ondivaga e non di rado opportunistica, oltre che contraddistinta da un forte accentramento. Non per nulla, Ursula von der Leyen ha condotto una trattativa pessima, molto cedevole e arrendevole nei confronti del “pirata” Donald Trump, rispetto a cui la linea più giusta era quella della fermezza, come indicato dal presidente francese Emmanuel Macron.

Nondimeno, e pur mettendoci giustappunto “del suo”, la presidente rappresenta lo specchio della debolezza generale della Ue e delle difficoltà di fare fronte comune fra Stati membri che, anche in questo contesto estremamente difficile, hanno finito per inseguire i loro interessi particolaristici alla spicciolata ed esercitato pressioni secondo uno schema, purtroppo, consolidato e, una volta di più, inadeguato.

Dal punto di vista dei Socialisti e democratici, inoltre, appare giustificato il fastidio per le ambiguità della “politica dei due forni” su scala continentale praticata da von der Leyen, che va sempre più spesso alla ricerca di maggioranze alternative à la carte.

Ma nel caso del Pd pare ormai esserci qualcosa di più, e di diverso. Da un lato, l’impressione è che, nuovamente, molto, se non tutto, venga ricondotto a una logica di politica domestica: ovvero, si attacca von der Leyen per colpire Giorgia Meloni (la quale, indubbiamente, ha influito negativamente sui negoziati con la sua difesa a oltranza dell’America dazista).

Dall’altro, ed è questo il punto essenziale, l’innalzamento dei toni polemici fa trasparire una specie di dilagante disamore nei confronti delle istituzioni comunitarie, insieme al consueto inseguimento delle posizioni del M5S (che, da forza ontologicamente populista, continua a mostrare vari tratti in comune con il salvinismo) e di Avs.

E, tuttavia, per quanto siano giustificate certe osservazioni critiche, non esiste un’altra Europa “del socialismo”, ma solo la prospettiva di una sua dissoluzione, facendo involontariamente il gioco dei leader e dei partiti sovranisti.

Servirebbe, dunque, parecchia attenzione, anche per coerenza con la tradizione del Pd che è fortemente europeista sin dalle origini, e che vanta vari, importanti padri nobili, da Romano Prodi a Giorgio Napolitano e David Sassoli. Inseguire il M5S su questo terreno costituisce l’ennesimo errore di prospettiva, e alimenta un antieuropeismo di fatto che non può avere spazio, a dispetto di qualunque «volontà testardamente unitaria» della segretaria dem, e di qualunque intento propagandistico o elettoralistico.

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