Superare la retorica di lavori buoni e stipendi bassi con un modello neo industriale

Non un rifiuto della manifattura, ma una sua trasformazione radicale su tre piani di intervento: tecnologia, organizzazione e nuove imprese tech based

Giulio Buciuni*

​​​​In un periodo in cui si parla di riportare i “production jobs” a casa anche attraverso dazi spericolati, rischiamo di perdere di vista la realtà: i cosiddetti “lavori buoni” non li vuole fare più nessuno. Non è solo la retorica della destra populista mondiale a invocare un ritorno a un passato che non esiste più.

Ricordo un dibattito con Carlo Calenda in cui sostenni che il Veneto avrebbe dovuto pensarsi post-manifatturiero, almeno in alcune filiere o funzioni. La sua replica fu netta: «L’Italia l’hanno fatta gli operai». Un rifiuto totale dell’idea che il Paese potesse crescere anche seguendo strade nuove, oltre la centralità della fabbrica. Oggi, guardando i numeri del Friuli Venezia Giulia, quella discussione suona ancora più attuale.

Tra agosto e ottobre le imprese della regione prevedono 28 mila ingressi, ma oltre la metà rischia di non concretizzarsi. Detto con altri numeri, il 55,3% delle posizioni è di difficile reperimento. Pordenone è la provincia italiana dove trovare un dipendente è più difficile (56,8%), seguita in regione da Gorizia (56,1%), Udine (55,2%) e Trieste (53,2%).

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E non si tratta di professioni di nicchia: parliamo di carpentieri, saldatori certificati, fresatori, operatori Cnc. Cuore vivo della manifattura del Nord Est. In quattro casi su dieci, nemmeno si presentano candidati al colloquio, e quando la ricerca va a buon fine servono in media cinque mesi. Qui scatta il cortocircuito. La teoria economica è chiara: quando l’offerta scarseggia, i salari dovrebbero salire fino a riequilibrare domanda e offerta.

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Questo però non accade. Perché? La risposta è scomoda: molte imprese non hanno margini per farlo. Certo, la pressione fiscale resta un ostacolo che frena aumenti diffusi. Ma il vero nodo è un altro: gran parte delle Pmi ha livelli di produttività troppo bassi per generare la ricchezza necessaria a sostenere stipendi davvero competitivi.

E questo è un nodo che troppo spesso viene eluso nel dibattito pubblico. Non basta invocare “più operai” se le imprese che li cercano non creano valore sufficiente da redistribuire. La conseguenza è che non siamo davanti a un semplice “mismatch formativo”. Non è solo che i giovani preferiscono più tempo libero o rifiutano orari pesanti nel weekend.

Il punto è che non trovano conveniente fare lavori gravosi a fronte di salari che, al netto di tasse e contributi, risultano poco competitivi rispetto ad alternative meno faticose. Né gli italiani, né sempre più spesso gli immigrati. Se il sistema fosse più produttivo, la dinamica dei manuali scatterebbe: stipendi in crescita, attrattività maggiore. Ma quando il valore aggiunto è basso, quell’automatismo non funziona.

La spirale è nota. Margini limitati, stipendi bassi, difficoltà a trattenere forza lavoro, rinvio degli investimenti, ulteriore calo della produttività. È così che settori interi rischiano di contrarsi non per delocalizzazione, ma per mancanza di manodopera disposta a entrarvi. Il mito dei “lavori buoni” si infrange contro il muro di un’economia che in molti comparti non riesce a sostenerne i costi e la pressione competitiva globale.

Ecco perché serve pensare a un modello neo-industriale. Non un rifiuto della manifattura, ma una sua trasformazione radicale. Ci sono almeno tre piani di intervento:

1. Tecnologia: automazione selettiva, digital twin, sensoristica avanzata per aumentare la produttività e liberare risorse da reinvestire in salari e condizioni migliori.

2. Organizzazione: re-design dei lavori duri attraverso ergonomia, turnazioni intelligenti, premi veri per le competenze critiche.

3. Nuove imprese tech-based: il Nord Est deve smettere di vivere solo di eredità manifatturiera. Occorre un ecosistema che generi aziende tecnologiche radicate nelle competenze produttive del territorio: software industriale, automazione, clean tech, tecnologie per l’energia e i materiali avanzati.

A questi tre punti si sommano leve di sistema: Its e formazione duale come infrastruttura stabile, canali migratori regolari per profili tecnici, formazione manageriale e incentivi per crescita dimensionale delle imprese (perché solo aziende più grandi possono investire in Ricerca&Sviluppo e capitale umano).

Il caso Friuli Venezia Giulia è uno specchio del Nord Est e dell’Italia. Dimostra che la retorica sui “lavori buoni” non basta, se non affrontiamo il vero nodo, ossia un sistema produttivo che crea troppa poca ricchezza. Senza un salto tecnologico, organizzativo e imprenditoriale, continueremo a contare posti vacanti e a rimpiangere un passato che non torna. 

* Docente al Trinity College di Dublino e direttore scientifico della Fondazione Nord Est

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