Nove mesi per assumere un lavoratore extra-europeo. Il «calvario» di Della Bella
La procedura iniziata a novembre 2024 con l’ambasciata di Manila si è conclusa soltanto lo scorso agosto

Renato Della Bella è un imprenditore noto a Verona, dove è stato presidente di Apindustria Confimi ed è presidente di Idb, società che opera nel settore dell’edilizia, in particolare prefabbricati destinati a grandi costruzioni e infrastrutture viarie e ferroviarie.
Come tale ha un gran bisogno di manodopera qualificata, che è diventata sempre più difficile da trovare. Da qui la necessità di rivolgersi all’estero anche perché «ci troviamo a fare i conti con 3 milioni di ventenni in meno rispetto ai primi anni duemila», dice Della Bella.
Così si è messo d’impegno per cercare di far arrivare alcuni lavoratori extraeuropei in Italia, studiando le varie opportunità che la legge offre per introdurli seguendo tutte le regole, di ingresso nel Paese e di assunzione. Ha quindi esaminato, e poi scartato: il “decreto flussi” che, dice, «di fatto è una sanatoria per chi è già in Italia», il decreto Cutro («prevede la formazione nei Paesi d’origine e per grandi numeri»), la Carta Blu («è per personale altamente qualificato, come gli ingegneri»).
«Grazie alla mia esperienza in Confimi Industria e agli incontri al Ministero del Lavoro – continua Della Bella – ho potuto conoscere infine lo strumento del tirocinio professionalizzante extra Ue, che mi è sembrato facesse finalmente al caso di una Pmi come la mia».
Quindi, e siamo a novembre del 2024, parte la relativa procedura burocratica con la domanda all’ambasciata italiana nelle Filippine. Dei vari candidati, finalmente si finalizza con uno. E qui cominciano i problemi.
I documenti da presentare sono tanti, alcuni vanno persi e, infine, l’ambasciata si prende ben tre mesi di tempo per rilasciare il nulla osta, che arriva a giugno di quest’anno. L’azienda paga il viaggio al lavoratore individuato, il filippino Roy Roque, che finalmente l’8 luglio arriva a Verona.
A questo punto la legge prevede che entro otto giorni l’azienda faccia domanda per il rilascio del permesso di soggiorno. Cosa che puntualmente avviene con una Pec alla Prefettura, per ottenere il codice di prenotazione che consente di avviare il percorso burocratico. Nessuna risposta, per interi giorni.
A questo punto in Idb decidono di andare fisicamente in prefettura, senza però cavare un ragno dal buco. Provano quindi ad andare in Questura, l’ente deputato al rilascio del permesso di soggiorno, che però, senza l’input della prefettura, non può fare nulla. E qui, come nel gioco dell’oca, si torna alla casella di partenza.
I giorni passano ed il tirocinio di Roy va obbligatoriamente attivato entro il 2 agosto. Si scopre quindi che il kit che contiene il codice di prenotazione può essere richiesto in Posta, previa compilazione di un complicato modulo, per il quale ci vogliono ore di lavoro e consulenze. Finalmente ottengono la prenotazione per il rilascio del permesso di soggiorno, la chiave per ottenere il codice fiscale e quindi un conto corrente e finalmente un contratto di affitto e di lavoro.
Sono passati nove mesi, quanto la gestazione di un figlio, e la trafila burocratica è finita. Finita bene perché la Idb ne aveva fortemente bisogno e Roque aveva da parte dei soldi che gli hanno consentito di aspettare per essere inquadrato, in regola e con prospettive di assunzione a tempo indeterminato.
Anche se, vista l’esperienza, si è sfogato con Della Bella confessandogli: «Forse mi conveniva arrivare in Italia con un barcone». «Se vogliamo veramente mettere le Pmi – conclude Renato Della Bella – in condizione di poter attrarre personale, questo iter va gestito in maniera professionale, veloce e con persone dedicate, coinvolgendo anche le associazioni di categoria. Insomma, vorrei che questa nostra esperienza fosse un monito sulla necessità di una procedura chiara e dai tempi certi».
Tutti avrebbero da guadagnarne. Lo Stato, che introduce manodopera qualificata, immigrati regolari che pagano le tasse e rispettano le leggi; le aziende, che ottengono lavoratori di cui hanno un bisogno, per non rischiare di chiudere; i lavoratori, che godrebbero di flussi di ingresso legittimi e sicuri e non sarebbero costretti a rischiare vita e soldi per arrivare in Italia.
Perché, se il caso di Roy Roque è finito bene e lui magari potrà pensare di costruirsi una famiglia in Italia, non bisogna dimenticare chi non ce l’ha fatta, e chi lavora nei nostri campi o nei nostri ristoranti, spesso sfruttato e in nero.
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