La rotta artica tra insidie e interessi: «Ha un valore soprattutto politico»
Le prospettive della Northern Sea Route su cui sta investendo la Cina: «Non è un’alternativa a Suez, funziona in casi limitati»

I ghiacci artici si sciolgono più in fretta che mai, aprendo la strada alla grande rotta commerciale dell’Artico, sulla quale però pesano troppe incognite e insidie.
Secondo il Financial Times, nel 2024 sono transitate appena 3 milioni di tonnellate di merci lungo la Northern Sea Route (Nsr), il corridoio che collega l’Asia all’Europa attraversando il Mar Glaciale Artico. Una cifra simbolica, se confrontata con gli 1,57 miliardi di tonnellate passate nel 2023 attraverso il Canale di Suez, oggi a rischio a causa degli attacchi degli Houthi.
Sulla carta, il vantaggio geografico è evidente: la rotta artica accorcia di oltre 4.000 miglia nautiche la distanza tra Shanghai e Rotterdam, con un risparmio potenziale di circa una settimana di navigazione e di consumi di carburante. Ma nella pratica, secondo diversi analisti, la Nsr non è competitiva su scala industriale: è più un corridoio geopolitico che commerciale. Il percorso resta stagionale, rischioso e costoso. Le navi devono essere ice-class, rinforzate per affrontare i ghiacci, oppure affidarsi ai rompighiaccio russi. A ciò si aggiungono assicurazioni proibitive, connessioni satellitari instabili e infrastrutture di supporto ancora scarse.
La questione è geopolitica ed è legata a questa era di conflitti che colpiscono le vie commerciali. La Russia di Vladimir Putin punta a candidare questa nuova via come alternativa a Suez, spingendo il transito di gas, carbone e petrolio per aggirare le sanzioni occidentali.
Anche la Cina osserva con interesse crescente: nel settembre 2025 Pechino ha lanciato la sua prima Polar Silk Road, un convoglio sperimentale di cargo verso l’Europa, più simbolico che redditizio. La fusione record del ghiaccio artico registrata nel marzo 2025 — è stato raggiunto il livello più basso mai osservato in quel mese — ha tuttavia acceso un potente faro su questa opportunità per i traffici via mare. Il cambiamento climatico, più che un’opportunità, rappresenta anche un moltiplicatore di rischio: mare in tempesta, nebbie, ghiaccio mobile e scarsa capacità di soccorso rendono la rotta tutt’altro che sicura.
Lo Stretto di Bering, unico passaggio tra Pacifico e Artico, è diventato un punto sensibile: «È una rotta più breve di 7-10 giorni sulle tratte Far East–Nord Europa, quindi con potenziale economico, ma bisogna valutare attentamente costi, sicurezza e impatto ambientale. Il traffico via Northern Sea Route è limitato a poco più di un centinaio di navi l’anno, contro le 26 mila che transitano da Suez», dice Alessandro Panaro, responsabile Maritime & Energy di Srm (gruppo Intesa Sanpaolo); «non penso possa essere un’alternativa al Canale di Suez, ma una via autonoma in cui potranno affacciarsi nuovi servizi diretti tra il Far East, la Russia e il Nord Europa. Si tratta infatti di una direttrice che potrà trovare spazi futuri, ma sconta criticità come l’obbligo di costose navi rompighiaccio, la mancanza di porti intermedi di imbarco e sbarco e la difficoltà di mantenere le stive piene, obiettivo primario delle compagnie».
Grandi compagnie come Msc hanno già dichiarato che non percorreranno la rotta artica per ragioni di sostenibilità. Per il gruppo di Gianluigi Aponte «il corridoio tra i ghiacci è ancora troppo pericoloso per gli equipaggi e per la sicurezza della nave. Un aumento del traffico attraverso l’Artico potrebbe avere un impatto sul fragile ecosistema della regione», avverte la compagnia.
Panaro condivide queste preoccupazioni: «Sicuramente far viaggiare gigantesche navi portacontainer potrebbe accelerare il processo di scioglimento dei ghiacci e, inoltre, sarebbe necessario avere grandi porti con stazioni di rifornimento di carburante ed eventuale manutenzione delle navi. La Nsr è più adatta a navi di piccole dimensioni, per servizi diretti e stagionali».
E qualche esempio già c’è: «Il recente viaggio della Istanbul Bridge (4.800 TEU) della compagnia Sea Legend da Ningbo, in Cina, a Felixstowe, nel Regno Unito», spiega Panaro, «mostra che la rotta può funzionare in casi mirati, ma non su scala industriale». I Paesi più interessati, sottolinea l’analista, restano Russia e Cina, seguiti da Regno Unito e Stati del Nord Europa, in cerca di collegamenti rapidi per merci energetiche e materie prime.
Sul piano economico, l’eventuale apertura stagionale della Nsr cambierebbe le logiche assicurative e i costi di trasporto: «È un bilancio complesso tra costi fissi e rischi variabili. Via Suez ci sono pedaggi, ma anche l’opportunità di caricare nei grandi hub del Sud e Sud-Est asiatico come India, Vietnam, Emirati Arabi. Nel caso della Nsr, invece, pesano la disponibilità dei rompighiaccio e una situazione meteo difficile da prevedere. Un fattore decisivo sarà la stabilità geopolitica».
Il porto di Trieste monitora con attenzione gli sviluppi anche se il suo futuro per ora non dipende dallo scioglimento dei ghiacci: «Trieste è un porto forte e strategico nel Mediterraneo», sottolinea Panaro, «che adotta un modello commerciale multipurpose, integrato con l’intermodalità: questo lo rende pronto ad affrontare ogni trasformazione dei processi logistici, dai container al Ro-Ro, fino ad altri tipi di traffico. Tuttavia, queste rotte alternative, come l’Imec (la via del Cotone), la Rotta Artica o il Capo di Buona Speranza, non hanno finora modificato l’assetto strutturale del porto. Piuttosto, va monitorata la competitività portuale, un tema connesso al rafforzamento dei porti adriatici dell’area balcanica — Capodistria, Fiume, Durazzo — e di quelli nordafricani, che stanno investendo in infrastrutture, sostenibilità e innovazione, anche attraverso le loro free zone. In questa partita a scacchi Trieste deve diventare la regina e non il pedone».
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