Gen Z, il tempo vale più del denaro: cosa cercano davvero i giovani nel lavoro
Il docente di Sociologia dell’Università di Padova anticipa i risultati dello studio che sarà presentato a Open Factory: valori meno gerarchici, nuove priorità e una scarsa conoscenza reale del mondo produttivo

«Una volta si diceva “il tempo è denaro” ora, per i ragazzi della Generazione Z, il vero denaro è il tempo». Daniele Marini, docente di Sociologia dei Processi Economici all’Università di Padova e direttore scientifico della divisione Research & Analysis Community, sceglie di riassumere così il senso della sua ricerca dal titolo “Il futuro è il presente. Il lavoro visto con gli occhi della GenZ”.
La ricerca sarà presentata il prossimo venerdì 28 durante il convegno di apertura dell’undicesima edizione di Open Factory, dal titolo “Il capitale umano come leva strategica per il futuro dell’impresa e dei territori”. L’incontro sarà ospitato presso la sede di Carraro Group a Campodarsego, in provincia di Padova. Al centro del confronto uno dei temi più urgenti e decisivi per la competitività del sistema produttivo italiano: la capacità delle imprese e dei territori di attrarre, formare e trattenere talenti. La ricerca curata da Marini fornisce alcuni dati per comprendere come i giovani leggono il proprio futuro. A colpire, prima di tutto, è il dato secondo cui solo il 4,4% del campione di under 34 intervistato è convinto, come si pensava un tempo, che «sono i lavoratori che si devono adeguare alle esigenze del lavoro». Tutti gli altri in un modo o nell’altro sono convinti che siano le imprese a dovere venire loro incontro.
Diventa così più comprensibile il fenomeno del «Le farò sapere se accetto la vostra proposta», che quasi 3 giovani su 5 hanno detto almeno una volta alla fine di un colloquio. «I giovani non sono schizzinosi o svogliati» spiega Marini. «Le risposte ai nostri questionari ci dicono che, anzi, il lavoro ricopre ancora un ruolo significativo tra i valori fondanti della propria personalità anche per i giovanissimi tra i 18 e i 24 anni (il 40,5% del campione lo ritiene importante). Le cose tuttavia sono molto cambiate negli ultimi anni. Nel 1987 i giovani presentavano una gerarchia valoriale molto più precisa e verticale: la famiglia, il lavoro, gli amici.
Poi venivano il tempo libero, la cultura, lo sport ecc. Ora la famiglia, la cura della propria salute, il tempo libero, la cultura e gli amici vengono prima del lavoro ma, in termini di peso, sono più o meno ugualmente importanti. Ciò a dimostrazione di una complessità più significativa e molto meno gerarchica dei valori in gioco. Un fenomeno che non può non incidere anche sul piano delle scelte lavorative».
Anche i fattori che contano nella scelta di una proposta occupazionale si fanno diversi e trasversali: per il 28,8% del campione la qualità del lavoro (intesa come prospettiva di carriera, formazione, stimoli, benefit e retribuzioni adeguate all’impegno) è strategica. Per il 20,9% invece è fondamentale la percezione dell’impresa come comunità. Una comunità in cui si cerca di incontrare attenzione alla diversità e all’inclusione, alle iniziative benefiche, al coinvolgimento dei dipendenti e così via. Solo un 12,6% ha un approccio strumentale, legato alla vicinanza a casa e alla flessibilità degli orari.
C’è poi una questione altrettanto strutturale: i giovani sembrano conoscere molto meno il mondo del lavoro e le sue dinamiche rispetto anche solo ad una ventina di anni fa. «Alla richiesta di descrivere i luoghi di lavoro, nello specifico fabbriche e industria, la prima risposta in assoluto è stata “non so”» osserva il docente di Padova. «Abbiamo poi verificato una significativa discrepanza tra le caratteristiche immaginate e quelle reali rispetto lavoro operaio: l’impressione di autonomia, di sforzo fisico e di uso delle tecnologie sono molto sottostimate dai giovani. Questa scarsa conoscenza del lavoro nasce di fatto da una divaricazione più netta di un tempo, tra il periodo della vita dedicato allo studio e quello della vita professionale.
Solo una ventina di anni fa i giovani facevano spesso lavoretti estivi che andavano dal facchinaggio alla fabbrica, passando per l’attività di commessi e così via. Ora questa prassi si è ridotta notevolmente e l’alternanza scuola-lavoro non è sufficiente a riequilibrare le esperienze concrete.
Anche sul piano della facilità percepita nel trovare un’occupazione i giovani sembrano essere preda di stereotipi solo in parte concreti: solo 11 giovani su 100 credono che in Italia sia facile trovare un lavoro, contro il 35,3% che è convinto che all’estero sia tutto più semplice. Il fenomeno», conclude Marini, «rischia contribuire ad alimentare quell’emigrazione dei talenti e delle competenze che invece dovrebbe essere nostro compito arginare al più presto».
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