Dario Solesin: «Il ricordo di mia sorella Valeria resti vivo, ho scelto di non odiare chi l’ha uccisa»
Dieci anni dalla sgtrage del Bataclan: «Gli attentatori erano delle persone normali, è questa la cosa più assurda della vicenda. Ora sono in Kenya, per proteggermi dal dolore, ma voglio tornare a Parigi e riappacificarmi con questa città»

Dario Solesin, cosa le è rimasto addosso di quella sera?
«Dieci anni e sembra ieri. Ho un ricordo vivo, soprattutto della consapevolezza che la mia vita sarebbe cambiata, che ero di fronte al mio spartiacque. Prima era una vita, poi ce ne sarebbe stata un’altra, da ricostruire. Il pensiero è stato quello, con il dolore infinito».
Dieci anni senza Valeria, domani. Come sono passati?
«Con il ricordo costante di lei. I primi anni sono stati molto lenti. Poi il tempo mi ha aiutato, e gli anni successivi sono trascorsi più velocemente».
Si trova a Parigi, per la commemorazione?
«No, sono partito per il Kenya, in vacanza».
Per allontanarsi da tutto quel dolore?
«Non consapevolmente. Però, ripensandoci, penso di sì».
È mai tornato a Parigi, dopo la morte di sua sorella?
«Una volta, per una commemorazione, qualche anno fa. Sono stato al Bataclan. È stato molto doloroso. Però vorrei fare pace con la città, iniziare a tornarci. Per me è sempre stata una seconda casa. Dopo tanti anni, credo sia il momento giusto».
Quali sono stati i suoi pensieri, quel giorno a Parigi?
«Saputo cos’era successo, quel giorno di dieci anni fa, mi sono distaccato subito dal fatto di cronaca in sé, da quello che era successo, dedicandomi soltanto all’elaborazione del dolore, dentro di me. Ma una volta lì, in quel teatro, sono stato costretto a capire quello che era successo. A immedesimarmi in Valeria, nelle sue paure, nei suoi pensieri. È stato come elaborare la realtà di quella sera».
La sua è stata una forma naturale di autotutela...
«Sì. Quando mia sorella è morta, avevo 25 anni, il futuro da scrivere. Mi sono protetto dal dolore. Ma il ragazzo di dieci anni fa non esiste più. In mezzo c’è stato tanto tempo, ma soprattutto molta fatica e tanto dolore. Un percorso che ho affrontato e che mi ha trasformato in una persona nuova».
Valeria era a teatro con il fidanzato e una coppia di amici. Siete ancora in contatto?
«Sì, sono persone vicine».
Vostra mamma continua a parlare di Valeria: dice che è importante mantenere il ricordo e la memoria...
«È vero. Il ricordo di mia sorella, che era una persona meravigliosa. E la memoria collettiva, perché quello che è accaduto quella sera ha segnato la storia recente dell’Europa. Di un’Europa aperta, libera, inclusiva in cui Valeria credeva profondamente. La mia famiglia la ricorderà per sempre, ma è giusto che l’impegno coinvolga anche le istituzioni».
Ha seguito il processo?
«Lo ha fatto mia mamma, studiando tutte le carte. Io, fin dai primissimi giorni, ho preferito restare un passo indietro. Ho scelto di proteggermi».
Si sarà chiesto tante volte il perché di quello che è successo: quale spiegazione si è dato?
«È una domanda che non mi sono posto. Gli attentatori erano persone normali, non dei criminali affermati. Ragazzini, e non un’organizzazione criminale, riusciti a mettere in piedi una macchina impressionante di sangue. È questa la cosa più assurda».
La sua famiglia ha sempre detto di non provare odio verso di loro: come fate?
«È una scelta. Aprirsi all’odio è un atto di non ritorno. Gli attentatori sono stati condannati a una pena esemplare. Odiarli significherebbe aumentare il dolore, la rabbia, senza trarne beneficio. Una volta che provi quel sentimento, la tua vita diventa più complicata. È per questo che è un’emozione che non abbiamo mai voluto trasmettere».
Qual è la cosa che le manca di più di Valeria?
«La sua simpatia, la sua serenità. Il suo modo di essere e di affrontare le cose. Tutto quello che rappresentava per me, la mia famiglia, i miei amici».
Diceva della necessità di ricostruirsi. Ci è riuscito?
«Vivo a Mestre, lavoro per le concessioni autostradali. Mattone dopo mattone, ho ricostruito la mia vita, concentrando le mie energie su questo: andare avanti. Ma il dolore è sempre lì, un passo accanto a me. Ci devo convivere e dovrò farlo per tutta la mia vita».
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