Ancora WHOna volta
Domenica 20 luglio a Piazzola sul Brenta parte il tour d’addio della storica band. Il rock rivoluzionario, le liti plateali, le molte “ultime volte” fino a diventare mito: 60 anni di storia musicale nella tappa padovana


Parte domenica da Piazzola sul Brenta il tour d’addio “The song is over” degli Who. Appuntamento alle 21 all’Anfiteatro Camerini. A due anni dall’esibizione a Firenze Rocks 2023 insieme all'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, il duo composto da Roger Daltrey e Pete Townshend sarà accompagnato da una formazione che include alcuni dei migliori musicisti del panorama rock internazionale.Questa volta si esibiranno per due eventi che, come si legge in una nota, “promettono di essere un'esperienza unica,tra classici intramontabili e il loro inconfondibile sound che ha segnato la storia del rock”!.
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Il primo tour di addio degli Who si concluse davanti a un pubblico numeroso e commosso il 17 dicembre 1982 ai Maple Leaf Gardens di Toronto, Ontario. Non ce la facevano più a stare insieme; l’energia accumulata dopo la morte disgraziata del batterista superstar, Keith Moon, era finita nello sciacquone in cui il rock’n’roll ha il vizio di mescolare droga, vertenze manageriali, scontri fra personalità complesse e tragedie dolorose come il massacro di Cincinnati di tre anni prima, dramma nel quale avevano perso la vita 11 ragazzi venuti a vedere uno dei gruppi inglese più significativi e rumorosi della nostra storia.
«Abbiamo smarrito il contatto con la nostra gente», sentenziò Pete Townshend, il chitarrista col nasone, l’autore di tutti i pezzi che contano, “il genio” per farla breve. Voleva fare altro, soprattutto una carriera solista. Per una volta, Roger Daltrey, compagno di viaggio da vent’anni, vero manager della comitiva oltre che voce e frontman di rara qualità, non lo contraddisse. «The song is over», ammise anche lui, riprendendo il titolo di canzone del 1971 che pareva profetica. Ma non lo era.
La fine degli Who è un film più volte annunciato e visto. Del resto è una band che ha rotto il muro della popolarità cantando «spero di morire prima di diventare vecchio» (My Generation, ottobre 1965) ed è riuscita, almeno per metà, a superare gli ottanta senza tradire la sua aspirazione, rimanendo sul palco a dispensare sorprese, nonostante gli acciacchi e gli effetti del tempo. «La rockstar è un brutto mestiere per invecchiare», ha confessato Townshend, salvo poi concedere che le rockstar «muoiono e basta, il viaggio è diretto senza fermate». Ovvio che la questione nascesse come un problema di spirito, non anagrafico.
Deve essere che ci hanno messo assai a diventare gli Who. È stato un processo più lento di quanto si poteva immaginare per quattro giovani di periferia dal talento indiscutibile. Oltre al compositore con le sei corde, al cantante, al batterista fuoriclasse, c’era il bassista quieto e impeccabile, John Entwistle, altro spericolato amante degli eccessi (morirà nel 2002 dopo una notte di alcol, droga e sesso). Insieme, trainati dal magro Pete, hanno sperimentato sino a imporre la pennata e il “power chord”, produrre la prima opera rock di successo (Tommy), scriverne una seconda giudicata migliore (Quadrophenia), dopo aver pubblicato uno dei dischi rock più definitivi di sempre (Who’s Next). Geniali e irregolari, hanno provato tutto, non solo nella musica. Poi sono diventati un mito. E non hanno smesso di alimentare la leggenda di sé stessi.
Doveva essere l’ultimo il tour del 1989, quando celebrarono i vent’anni di Tommy. Falso. Nel 1996 si rimettono insieme per festeggiare Quadrophenia sull’erba di Hyde Park. Dato l’estremo addio a Entwistle non si sono più fermati. Dopo un concerto a Bologna, nel 2016, Townshend incontra nel backstage un giovane fan italiano e annuncia di aver ritrovato il contatto con la sua base. Due anni fa, a Firenze, regalano un concerto formidabile, energia allo stato puro. La Generazione Z che ha scoperto gli Who nelle sigle di “Csi” si sono ritrovati a disprezzare «il nuovo capo che è come il vecchio capo» e a urlare nel gran finale di Won’t get fooled again, inno di rivolta delle generazioni arrabbiate, molte, persino troppe.
Il segreto degli Who è il coraggio. La voglia di opporsi. La passione per una buona melodia. La voglia di rompere gli standard. Il conflitto permanente fra il Roger il severo direttore e Pete l’orchestratore di emozioni, il Bene e il Male, altri due Yin e Yang. Nel 2006, a Montecarlo, nel pubblico dello Sporting c’era uno scalmanato che continuava a urlare per chiedere Magic Bus. Townshend rispose che avrebbero fatto solo canzoni intellettuali e attaccarono con Naked Eye (una gemma!). Un problema all’auricolare costrinse Daltrey ad abbandonare il palco e allora il chitarrista disse «let’s play the fucking Magic Bus». Cantò lui, ne fece una versione massiccia e tirata. Tornato in scena, Daltrey gli mostrò il pugno, come per dire «non farlo mai più».
Fu una litigata plateale che fece pensare sarebbe stata l’ultima volta. Non lo fu. Così, ora che arrivano in Italia e giurano che «The Song is Over» (che poi era una canzone d’amore) si fa fatica a credergli. I due ci ridono su, da anni dicono che «ogni volta può essere l’ultima volta», per cui la conclusione diventa scontata: l’ultima volta sarà la prossima. Intanto, buon concerto e lunga vita al rock.
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