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Dopo cinque anni, torna Checco Zalone con il suo “Buen camino”. Damiano Michieletto esordisce dietro la macchina da presa con “Primavera” sulle note di Vivaldi. “La mia famiglia a Taipei” sulle orme del cinema di Sean Baker

Marco Contino
Checco Zalone nel film "Buen Camino"
Checco Zalone nel film "Buen Camino"

Checco Zalone, il re degli incassi, è tornato. In “Buon camino”, diretto da Gennaro Nunziante, ora è un ricco cafone alla ricerca di una figlia perduta, in tutti i sensi. Ma quella maschera di meravigliosa mediocrità che tanto successo ha avuto negli anni sembra mostrare la corda, trovando riparo in una commedia familiare dalla sceneggiatura più che scolorita.

L’esordio dietro la macchina da presa di Damiano Michieletto, uno dei registi italiani di opera lirica più influenti della sua generazione, è guardingo. “Primavera” racconta la storia di un’orfana musicista del Pio Ospedale della Pietà di Venezia e del suo incontro con Antonio Vivaldi.

Shih-Ching Tsou, collaboratrice storica di Sean Baker, dirige “La mia famiglia a Taipei”: realismo ad altezza bambino che non edulcora ma, in qualche modo, disinnesca i drammi quotidiani e il disagio di coloro che vivono ai margini nella vorticosa città di Taiwan. Candidato all’Oscar come miglior film straniero (per ora in short list)

BUEN CAMINO

Regia: Gennaro Nunziante

Cast: Checco Zalone, Beatriz Arjona, Letizia Arnò, Marina Colombari, Hossein Taheri

Durata: 90’

Voto: 5

L’evoluzione di Checco Zalone personaggio si è compiuta: da ragazzo spiantato del sud mosso dal sogno di diventare una rock star (Cado dalle nubi), ad aspirante guardia del corpo (Che bella giornata); da padre imperfetto imbucato nell’alta società (Sole a catinelle), a impiegato aggrappato al mito del posto fisso (Quo vado?), fino all’imprenditore fallito e in fuga in “Tolo Tolo”. Ora, in “Buen camino”, Zalone è diventato ricchissimo (alle spalle del padre, fiero di non aver mai lavorato un giorno nella vita) mentre la figlia 17enne Cristal (come lo champagne) in crisi è scappata di casa per ritrovare se stessa lungo il Cammino di Santiago.

Al padre assente - anestetizzato dal lusso, modelle bellissime e Ferrari da collezione - non resta che andare a riprendersela, mescolandosi ai pellegrini in viaggio in un incontro/scontro sociale e generazionale che funziona, ovviamente, da propulsore di una comicità più favoleggiante che dissacrante, più guardinga che libera che dà il meglio nel plasticismo di smorfie del protagonista più che nella narrazione all’acqua di rose.

Cinque anni e parecchi milioni di incassi dopo, Zalone torna a farsi dirigere dal sodale Gennaro Nunziante ma quella maschera di meravigliosa mediocrità che tanto successo ha avuto negli anni sembra mostrare la corda, trovando riparo in una commedia familiare dalla sceneggiatura più che scolorita, disseminata, qua e là, di battute fulminanti pericolosamente sospese tra il “l’intelligentemente scorretto” e il cattivo gusto (farà discutere il gioco di parole su Gaza e le arguzie sui campi di concentramento).

Se sarà un “Buon camino” (in termini di box office e di gradimento del pubblico) lo decideranno gli spettatori: con una programmazione in quasi 1.000 copie diventa persino difficile non vedere il film.

(Marco Contino)

 

PRIMAVERA

Regia: Damiano Michieletto

Cast: Tecla Insolia, Michele Riondino, Andrea Pennacchi, Fabrizia Sacchi, Stefano Accorsi

Durata: 110’

Voto: 6

 

Venezia, primi del ‘700. Cecilia (Tecla Insolia) è un’orfana dell’Ospedale della Pietà, luogo di salvezza ma anche prigione dell’anima, gestito da una priora inflessibile (Fabrizia Sacchi) e amministrato da un untuoso e avido governatore (Andrea Pennacchi).

Le sue “putte” sono musiciste brillanti e invisibili ma, al momento opportuno, svelate e “vendute” a ricchi patrizi veneziani. Quando un nuovo maestro, Don Antonio Vivaldi (Michele Riondino), viene ingaggiato per portare lustro e ducati nelle casse dell’Ospedale, Cecilia - promessa in sposa a un ufficiale veneziano (Stefano Accorsi) - scopre, grazie a lui, nuove note sul proprio violino: sono quelle della passione e di una libertà da sempre negata. “Primavera” è l’esordio nel lungometraggio di finzione di Damiano Michieletto, uno dei registi italiani di opera lirica più influenti della sua generazione, capace di coniugare, nel lavoro teatrale, rigore intellettuale e forza visionaria.

Frame del film "Primavera"
Frame del film "Primavera"

E non poteva che essere una storia di creazione musicale, come forza sovvertitrice dell’esistenza, ambientata nella sua Venezia, il punto di partenza per questa sua prima regia cinematografica, liberamente ispirata al romanzo “Stabat Mater” di Tiziano Scarpa (adattato per il grande schermo da Ludovica Rampoldi). Michieletto firma un “melò” in costume che, attraverso l’inquieto processo creativo delle composizioni di Vivaldi, racconta di legami materni recisi, di giovani vite “marchiate a fuoco” e di sogni infranti, in un vortice di “musica, morte e soldi”. Il suo è un esordio guardingo: più un “Adagio” che un “Allegro”, senza spingersi in territori che hanno trasformato le sue storie a teatro in un organismo vivo, con uno stile meno febbrile e visionario delle sinfonie che risuonano sullo schermo.

(Marco Contino)

LA MIA FAMIGLIA A TAIPEI

Regia: Shih-Ching Tsou Cast: Shi-Yuan Ma, Janel TSAI, Nina Ye, Brando Huang.

Durata: 108’

Voto: 6,5

Shih-Ching Tsou collabora da sempre con Sean Baker come produttrice dei suoi film. Un legame osmotico che si riconosce anche nella sua prima regia in solitaria (“Left-Handed Girl”, distribuito in Italia con il titolo “La mia famiglia a Taipei”) di cui “Mr. Anora” è co-produttore/co-sceneggiatore e montatore.

Non è un caso che il film condivida con “Un sogno chiamato Florida” di Baker quel realismo ad altezza bambino che non edulcora ma, in qualche modo, disinnesca i drammi quotidiani e il disagio di coloro che vivono ai margini (altro tema caro al regista americano). Come la madre-single Shu-fen - ancora ferita dagli strascichi (anche economici) di un matrimonio fallito - che fatica a pagare l’affitto del suo chiosco di noodles immerso nel caleidoscopico mercato notturno di Taiwan e non ha tempo per gestire né l’irrequieta figlia maggiore I-Ann, né la piccola I-Jing il cui mancinismo (da qui il titolo originale del film) è fonte di una crisi personale della bambina, innescata dal tradizionalismo del nonno che vede nella sinistra la mano del diavolo.

Shih-Ching Tsou si muove tra le contraddizioni e l’amoralità di un paese che attecchiscono, in piccolo, nelle dinamiche familiari (I-Ann lavora come “betel nut beauty”, ambigua venditrice di noci agli angoli delle strade, mentre la nonna si fa coinvolgere in un giro losco di affari), sgretolando, lentamente, le vite dei protagonisti, fino al gran finale, forse non così inaspettato …

Frame del film "La mia famiglia a Taipei"
Frame del film "La mia famiglia a Taipei"

Pur all’interno di una società trasfigurata dai social, le luci al neon, il denaro (che manca sempre), lo sguardo di Shih-Ching Tsou non diventa mai cinico, né rassegnato. Anzi, schiude a improvvise e morbide planate di tenerezza e di protezione che si fanno largo tra il ciarpame materiale e sentimentale di una città vorticosa, sempre sul punto di divorare se stessa. Candidato all’Oscar come miglior film straniero (per ora in short list).

(Marco Contino)

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