Garibaldi redivivo giudica l’Italia di oggi: Paolo Rumiz accende il dibattito con il nuovo libro

In “Bella e perduta” l’Eroe dei Due Mondi diventa simbolo universale di libertà. Il 25 giugno al Teatro Miela di Trieste l’incontro con l’autore

Zeno Saracino

Come reagirebbe un redivivo Garibaldi se fosse posto a giudicare l'Italia (e l'Europa) odierna? Avendo già nell'Ottocento in disprezzo i "tempi borgiani" e avendo giurato di "consacrar la mia vita all'altrui perturbazione", l'Eroe dei Due Mondi non reagirebbe certo con parole gentili, ma si scaglierebbe contro i "tiranni dell'anima e del corpo" che affligge(va)no la penisola.

È quanto tenta di fare, annodando i bottoni di un'immaginaria camicia rossa, Paolo Rumiz con "Bella e perduta. Canto dell'Italia garibaldina" (Feltrinelli) in cui l'icona del Risorgimento italiano assurge a simbolo universale della libertà umana. L'opera recupera infatti un vecchio viaggio compiuto quindici anni fa, nel 2010, sulle orme dell'Impresa dei Mille: un reportage dove l'Italia si presentava divisa nella sua apparente unità, tra disaffezione verso la politica e campanilismi esasperati. Alla struttura tradizionale del viaggio Rumiz però soggiunge un discorso agli italiani dell'immaginario Garibaldi, redatto nel suo stile: infuocato, indignato, teso a far brillare scintille sepolte sotto decenni di cinerea politica italiana.

Se ne discuterà mercoledì 25 giugno, alle 18, al Teatro Miela: la cornice di "Pequod itinerari di letteratura e giornalismo" consentirà un dialogo tra Rumiz e lo scrittore e curatore del festival letterario "Barcolana – Un mare di racconti" Alessandro Mezzena Lona.

Ma perchè proprio Garibaldi? «Mille motivi: elementi legati ad uno scottante presente dove non vi sono al momento buoni eroi nei quali riconoscersi, i nostri ideali sono miserevoli e c'è l'incapacità dei partiti democratici di stare vicino al popolo, i quali hanno trasformato la democrazia in qualcosa di infinitamente noioso - spiega Rumiz -. Senza dimenticare l'emozione che nasce negli ultimi due anni: l'invasione russa dell'Ucraina e il disastro scatenato a Gaza dal 7 ottobre in poi».

E motivi poi di lungo periodo: «Mi è capitato di trovare alcune centinaia di lettere sull'Eroe ricevute durante il viaggio alla ricerca della memoria garibaldina degli italiani, nel 2010». Da qui l'idea del recupero di quest'epistolario, accelerato dal ritrovamento «su una bancarella di un vecchio libro rosso, intitolato Poema autobiografico dove Garibaldi raccontava la sua storia con tremila versi endecasillabi».

La questione è anche stilistica, perché «il linguaggio di Garibaldi non era per spiegare, ma per esortare l'animo della gente, persino per inquietare: il mio destino è di generare l'altrui perturbazione, affermava. E questa, in fondo, dovrebbe essere anche la missione di colui che scrive. Non hanno senso libri che fotografano la realtà, ma servono opere che generano problemi, che mostrano l'altra faccia della medaglia».

L'opera, ricorda Rumiz, «è ovviamente antifascista: l'opera di un repubblicano, socialista, europeista che si ritrova perfettamente nel pensiero di Garibaldi, ma al contempo che critica con forza i partiti democratici».

E come si rapporta Trieste con Garibaldi? «L'Italia che i triestini, sotto l'impero asburgico, sognavano non era certo quella che poi, dal 1918, divenne rapidamente fascista: era l'Italia libertaria di Garibaldi, che cantava, "ardente" di passione. Poi la realtà si rivelò molto diversa dalle aspettative...».

Eppure il concetto di Garibaldi di nazione non era esclusivista; mentre invece «oggigiorno ci si aggrappa al dio "nazione" - riflette Rumiz - a questa patria che chiama alla riscossa e all'orgoglio, basata solo sull'etnia. La patria è invece colei che nutre coloro che l'amano: per me, se un afgano arriva a Trieste nascosto in un camion e si mette poi onestamente a lavorare, per lui la patria è l'Italia. Del resto la stessa cosa dissero gli italiani, emigrati in Francia prima della Grande Guerra, i quali divenendo cittadini francesi combatterono per la Repubblica: uno di questi raccontò di aver combattuto volentieri per la Francia, perché l'aveva nutrito, mentre in Italia moriva di fame».

In tal senso Garibaldi si configura come un simbolo; anzi per Rumiz «un mito per entrambe le parti politiche: tra le lettere a me giunte c'era quella di un vecchio componente della X Mas che era andato a combattere contro i titini, sul fronte orientale, e raccontava di aver cantato canzoni garibaldine e di essere stato convinto (aveva appena diciotto anni) che si parlasse italiano fino a Lubiana, rimanendo sorpreso di scoprire una presenza slovena anche nella "Santa" Gorizia. E allo stesso modo avevo ricevuto la lettera di un ex partigiano che ricordava di aver cantato canzoni garibaldine. Garibaldi è una figura trasversale che rappresenterà però sempre l'ardore di un ideale». 

 

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