Giorgio Napolitano tra vita pubblica e storia privata: il ritratto nel memoir del figlio Giulio
Il libro “Il mondo sulle spalle” restituisce il racconto del presidente e del padre. Tra affetti, assenze e riconciliazioni


Alcune storie abitano nella dimensione familiare, altre appartengono a tutti. Queste rette narrative sono solitamente parallele: si dirigono verso il futuro o ripercorrono il passato, ma non convergono. Con “Il mondo sulle spalle”, Giulio Napolitano riesce invece a intrecciarle. Consegnandoci non solo il ritratto pubblico di Giorgio Napolitano – figura centrale della storia repubblicana – ma anche quello più sommesso del padre, in un mosaico di affetti, assenze, riconciliazioni. Ne esce un memoir sobrio e appassionato, costruito con la lucidità del giurista e la delicatezza del figlio.
Due, quindi, i registri. Da un lato, la parabola politica di Giorgio Napolitano: la militanza nel PCI, l’evoluzione verso posizioni riformiste, il lungo lavoro parlamentare, e l’ascesa al Quirinale. Dall’altro, il vissuto privato: il rapporto con la moglie Clio, i figli Giulio e Giovanni, la distanza imposta dal ruolo pubblico, la sofferta resistenza nel dialogo affettivo.

Un tema forte, che attraversa il libro, è quello della politica internazionale, vissuta da Napolitano con uno sguardo ampio, europeista e atlantico, anche quando ciò lo poneva in tensione con l’ortodossia del suo partito. La politica come tessitura di equilibri globali.
Ma è nel racconto delle dinamiche familiari che il libro colpisce. Giulio Napolitano non si sottrae alla complessità del rapporto con un padre ingombrante e fatalmente assente. Intercorrono lettere, tra i due. «Le leggevo sempre con gratificazione, ma anche con inquietudine. In quelle missive mio padre spesso confessava di sentirsi “il mondo sulle spalle” e, pur volendo proteggermi da un analogo destino, finiva inconsapevolmente per trasferire su di me un po’ di quel peso. (...) Avevo l’impressione che ogni mio comportamento mettesse in gioco, nel bene e nel male, anche la sua immagine pubblica e la sua reputazione».
La prima lettera Giulio la riceve all’indomani del compimento dei 18 anni, dopo una festa con gli amici. È una mattina di luglio del 1987, internet e gli smartphone non fanno parte delle vite italiane. Al risveglio, la trova in una busta chiusa sul tavolo, carta intestata della Camera. Il futuro Capo dello Stato scrive al figlio che è felice di vederlo «sereno, ricco di interessi e di impulsi e proteso con così grande energia verso l’avvenire». È fiero di lui.
Una storia che suona autentica, mai recriminatoria. Nel tempo il legame si ricostruisce, anche attraverso la condivisione dei momenti più difficili, come la malattia e la vecchiaia. Non si tratta di “scolpire una statua”, ma di raccontare un uomo. Con il suo rigore personale, le sue contraddizioni, la sua tensione morale. Di concerto a questo racconto, c’è il racconto dell’Italia: le speranze della Prima Repubblica, le fratture della Seconda, l’incertezza dei nostri tempi.
Poi, d’improvviso, la prosa cambia ritmo: è parcellizzata. Aspra. Una stanza. Due sedie. Una voce che si spegne. Non resta che ascoltare e ricordare.
Il libro ci ricorda una cosa naturale, ma che tendiamo a rimuovere: e cioè che dietro ogni ruolo pubblico c’è una storia privata. Una politica fatta con impegno e ad altissimo livello si struttura, suo malgrado, su silenzi e fragilità interne. E a volte anche su ferite. È il racconto di un’eredità doppia: civile e affettiva. Il mondo sulle spalle è il peso che Giorgio Napolitano si è assunto nel corso della sua vita politica, ma anche quello che i figli – e in senso più ampio, le generazioni successive – ereditano. —
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