Monsignor Paglia: «La politica agonizza e lascia spazio alle armi»
L’allarme lanciato da Vincenzo Paglia che esorta i cristiani ad agire: «In giro vedo troppa rassegnazione e una generosità avara»

«La politica agonizza, mentre cresce la voglia di guerra». Monsignor Vincenzo Paglia, presidente emerito della Pontificia Accademia per la Vita e consigliere spirituale della Comunità di Sant’Egidio, non nasconde l’angoscia per questa fase di conflitti.
Monsignore, come commenta le ultime ore della vicenda della Flotilla, tra abbordaggi e arresti?
«Avevo ascoltato con favore nei giorni scorsi le parole del presidente Mattarella e dei cardinali Zuppi e Pizzaballa. Non so se dal punto di vista del diritto internazionale i fermi siano legittimi. Certo è che è un gesto che fa riflettere su come continuare a portare aiuti a popolazioni in guerra. Non solo a Gaza, ma anche da altre parti».
Come vive, più in generale, questa fase di guerre, violenze, instabilità?
«La vivo in maniera drammatica. Il filosofo Hans Jonas diceva che l’umanità è sull’orlo dell’abisso. Sembra che non ce ne accorgiamo, ma oggi quell’orlo è ancora più vicino: al surriscaldamento del pianeta si sommano decine di guerre che non si riescono a far terminare. Anzi, spesso non si vogliono terminare. Si pensa, paradossalmente, di chiuderle rendendole più grandi: è come gettare benzina sul fuoco».
Perché siamo arrivati a questo punto?
«Perché purtroppo cresce una cultura iperindividualista, che spinge a guardare solo a sé stessi e a disinteressarsi degli altri. E perché si tende ad affidarsi alla forza delle armi invece che a quella del dialogo, dell’incontro, della politica. Mi pare agonizzante la politica e fiorente la voglia di guerra».
Che ruolo vede per l’Europa in questo scenario?
«L’Europa, pur nel suo momento di maggiore debolezza, mostra almeno qualche vagito. Ma rimane urgente che ritrovi sé stessa e quello spirito di pace e universalità che aveva dimostrato alla fine della Seconda guerra mondiale e nel 1989, in un momento epocale come quello della caduta del muro. L’Europa deve ritrovare i suoi cromosomi originari: pace, unità, futuro condiviso».
A chi rivolge il suo appello?
«Ai cristiani. Mi chiedo: dove sono i cristiani d’Europa? Li vedo divisi, rassegnati, con una generosità avara e poca fede nella forza del Vangelo dell’amore. È una debolezza che mi addolora, perché ci sono milioni di cristiani nel nostro continente e non possono restare silenziosi o marginali».
Quale può essere il contributo delle istituzioni religiose e della Chiesa?
«Per fortuna qualche luce c’è. Penso alla grande generosità di tanti cattolici, all’impegno della Comunità di Sant’Egidio nella guerra in Ucraina, allo sforzo e alla missione del cardinale Zuppi, ai cristiani che resistono in Terra Santa sotto le bombe, al Papa che non si stanca di annunciare pace. Queste luci non devono restare isolate. Milioni di cristiani in Europa devono far sentire non solo la voce, ma la forza di una fede che vuole davvero cambiare il mondo e non abbandonarlo alla violenza e agli egoismi nazionali. Come cristiani dobbiamo mostrare che il Vangelo dell’amore e della fraternità non è un’utopia: è una risorsa concreta per costruire futuro. Ma occorre crederci e testimoniarlo, con coraggio e unità».
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