Guido Piovene oltre la Cortina di ferro: il talento del reportage alle origini del suo sguardo europeo

Ronzani pubblica per la prima volta gli articoli scritti tra il 1946 e il 1947 in Polonia e Bulgaria: il giovane Piovene racconta un’Europa che cambia, tra macerie, totalitarismi nascente e i nodi della propria biografia politica

Nicolò Menniti Ippolito

 

Il Guido Piovene grande scrittore ed il Guido Piovene ottimo giornalista si sono incontrati nei libri di viaggio: reportage d’autore in cui la capacità di descrivere si accomuna ad una sorta di sesto senso che fa percepire in modo quasi immediato il clima di un luogo, di un momento storico, il mood di un popolo.

Certo, il capolavoro assoluto del genere è il “Viaggio in Italia” del 1957, ma ancor prima viene il “De America” del 1953. Senza contare altri testi in qualche modo minori come quelli dedicati alla Russia sovietica, “Retour de Russie”, ai paesi occidentali nella guerra fredda, “L’Europa semilibera”, al Sudamerica, alla Francia.

Ma ora l’editore “Ronzani” pubblica in volume per la prima volta due reportage del grande scrittore vicentino che vanno alla radice in qualche modo di questa sua capacità di sintetizzare in poche osservazioni ciò che studi molto più ampi e approfonditi a fatica riescono a raccontare.

“Oltre la cortina di ferro” (p.156, 18 euro) raccoglie, a cura di Raoul Bruni, una ventina di articoli scritti da Guido Piovene per il «Corriere della Sera» tra il 1946 e il 1947. Il primo gruppo di articoli è dedicato ad un viaggio in Polonia, il secondo ad uno in Bulgaria di pochi mesi dopo. L’interesse del libro è molteplice. Da un lato offre l’occasione di vedere all’opera un Piovene non ancora quarantenne (ma già autore di “Lettere di una novizia”) che comincia ad inventarsi un genere che gli sarà poi estremamente congeniale. Da un altro, offre l’occasione di guardare con la lente dell’epoca ad un momento in cui letteralmente si fa la storia, perché Polonia e Bulgaria non sono ancora Stati totalitari ma lo stanno diventando, con la progressiva cancellazione delle istituzioni liberali, dei partiti politici, della libertà di pensiero.

Ma da un altro ancora permette di cogliere le sfumature di un passaggio politico importante anche per lo stesso Piovene, come ricorda nell’introduzione Bruni. Perché come molti italiani anche Piovene ha un passato fascista (con più di qualche cenno di antisemitismo), ma anche una radice intimamente liberale (conservatore illuminato si definirà negli anni Settanta) cui però lui stesso guarda con una certa diffidenza, contagiato da un’epoca in cui sembra che il vento socialista sia destinato a mutare in meglio l’Europa uscita dalla guerra (e negli anni Sessanta sarà soprannominato per questo “il Conte rosso”).

Cominciamo dal Piovene viaggiatore, già capace di quelle caratterizzazioni fulminee che illuminano “Viaggio in Italia”, per esempio su Cracovia: “simile ad una città padana, a cui si mescolano un po’ d’estro orientale ed uno spolvero di vecchia grazia austriaca”. Oppure la genialità descrittiva su Varsavia distrutta: “ombre policrome su spezzoni di muro, tra labirinti di macerie segnati di peste umana”. In presa diretta, poi, Piovene racconta il formarsi della nuova Europa, con esodi biblici oggi dimenticati: milioni di tedeschi espulsi dalla Polonia, sostituiti etnicamente da 5 milioni di polacchi cacciati dalle terre assegnate alla Russia “si mescolano in una massa grigia, offrendo in vendita gli oggetti piu personali, una fede matrimoniale, un pettine, una camicia, tutti gli avanzi di una vita in liquefazione”. Ed intanto la sovietizzazione avanza, anche se Piovene ottimisticamente pensa ancora che riguarderà più la politica estera che quella interna; e lo penserà fino alla condanna a morte in Bulgaria di un campione dell’antifascismo come Nicola Petkov. Quanto ai conti con la sua storia politica Piovene li fa con qualche reticenza. Ad Auschwitz (siamo solo nel 1946 ) trova parole sgomente: “la terra intorno è coperta di un’alta polvere soffice, stranamente simile a quella che a Pompei si commercia in piccoli astucci di vetro; e questa è cenere di morti”, ma si dimentica di dire che questi morti sono perlopiù ebrei, anche se altrove mostra attenzione alla persecuzione. Ma aldilà di questo emerge quella che sarà poi la sua posizione più autentica; un europeismo che –ricorda Bruni- allontana la sua figura da quella ostinata ed esclusiva vicentinità che gli si vuole attribuire. —

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