Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 4 dicembre

Il cinema alieno di Carolina Cavalli con “Il Rapimento di Arabella”. La storia vera del figlio di un boss che non sopporta la vista del sangue nel film di Daniele Vicari “Ammazzare stanca”. La storia di un trio e di un’epoca nel documentario di Sophie Chiarello “Aldo Giovanni e Giacomo. Attitudini: nessuna”

Marco Contino e Michele Gottardi
Il film "Il rapimento di Arabella"
Il film "Il rapimento di Arabella"

Carolina Cavalli spinge sull’acceleratore del suo cinema obliquo con un road movie che si adagia nelle pieghe del rimpianto e dell’ansia del futuro. “Il rapimento di Arabella” è imperfetto ma ha qualcosa di seducente. Brava (ancora una volta) Benedetta Porcaroli.

“Ammazzare stanca”, tratto dall'autobiografia di uno dei primi pentiti della ‘ndrangheta, ricostruisce, come nella migliore tradizione dei Daniele Vicari, ambienti, famiglie, situazioni sociali e politiche di sfondo. Ma, alla fine, sfocia nel dramma più prevedibile.

Gustoso, nostalgico, equilibrato. La regista italo-francese Sophie Chiarello firma un affettuoso ritratto del trio comico che ha lasciato un segno nella storia dell’intrattenimento italiano. “Aldo Giovanni e Giacomo. Attitudini: nessuna” è una cavalcata nella loro comicità ma anche nelle loro parentesi più intime.

 

Il rapimento di Arabella 

Regia: Carolina Cavalli

Cast: Benedetta Porcaroli, Lucrezia Guglielmino, Chris Pine, Eva Robin’s

Durata: 107’

 

A Carolina Cavalli non difetta lo sguardo alieno, molto poco allineato al “cinema delle nostre parti”. Scabro, lunare, apatico, perso tra i tanti non luoghi del nostro Paese: trampolino perfetto per le sue storie “universali”.

Accadeva nel film d’esordio, “Amanda”, con Benedetta Porcaroli che vestiva i panni di un personaggio femminile respingente ma con lampi di empatia. Nella sua opera seconda (“Il rapimento di Arabella”, presentato in concorso nella sezione Orizzonti a Venezia 82), Carolina Cavalli radicalizza, anche esteticamente, la riflessione sulla difficoltà di trovare un proprio posto nel mondo.

Holly (sempre Benedetta Porcaroli: interprete preziosa e completa capace di passare da queste atmosfere kaurismakiane al dramma in costume) ha sempre pensato di essere la versione sbagliata di se stessa e che la sua vita non abbia preso la giusta direzione.

Quando incontra una bambina di nome Arabella (la piccola Lucrezia Guglielmini: sorprendente), si convince di aver trovato se stessa da piccola (un po’ come accadeva nel film “Petite Maman”).

Arabella, nel frattempo scappata da un padre in crisi (Chris Pine), glielo fa credere, assecondando il desiderio di Holly di tornare indietro nel tempo per forgiare un nuovo passato e trasformarlo in un futuro diverso. L’equivoco (sin dal titolo: non è un rapimento ma, semmai una presa di coscienza attraverso un’altra persona) è la cifra di un film inafferrabile, di una fuga nonsense, di un road movie verso una meta che non esiste perché la dimensione del viaggio non ha autentiche coordinate spazio-temporali (il film è ambientato in quelle “Città di pianura” di Francesco Sossai, non luoghi tra le montagne e il mare, indefinibili, indecifrabili e, alla fine, introvabili) ma si adagia nelle pieghe del rimpianto e dell’ansia del futuro e nei vuoti di una esistenza che Holly vuole provare, in un ultimo disperato tentativo, a riempire.

Cavalli non sceglie un cinema facile e, anche per questo, “Il rapimento di Arabella” è un film imperfetto che guarda, appunto, a un certo “spirito” nordico (Kaurismaki ma anche Roy Andersson) o indie americano, non sempre con la consapevolezza che sarebbe necessaria per addomesticarne le bizze e gli avvitamenti.

In fondo l’autrice è come la sua protagonista, in cerca di se stessa in una produzione cinematografica convenzionale: solo per questa obliquità andrebbe apprezzata e incoraggiata. Set allestiti in larga parte in Veneto tra Padova, Vigonovo, Cittadella, Abano Terme, Roana (lo stadio del ghiaccio), Breganze, Rosolina e Villorba (Fabrica). (Marco Contino)

Voto: 6

***

Ammazzare stanca 

Regia: Daniele Vicari

Cast: Gabriel Montesi, Vinicio Marchioni, Selene Caramazza, Andrea Fuorto, Thomas Trabacchi, Pier Giorgio Bellocchio, Rocco Papaleo

Durata: 129’

Il film "Ammazzare stanca"
Il film "Ammazzare stanca"

Buguggiate, provincia di Varese, paese con fortissimi legami con i boss di Gioia Tauro, primi anni '70.

Antonio Zagari, figlio di Giacomo, boss calabrese trapiantato in Lombardia, dopo aver ucciso più volte, capisce di non essere adatto a quella vita: per lui ammazzare diventa un peso insostenibile, fino alla ripulsa per il sangue, una ribellione del corpo prima che della coscienza. Mentre i suoi coetanei si ribellano nelle fabbriche, nelle università, nelle piazze, in lui cresce il rifiuto per l’esercizio del potere e per la ferocia del genitore. Deve trovare il coraggio di andare contro il padre e tramare contro di lui una vendetta peggiore della morte.

Tratto dall'autobiografia di uno dei primi pentiti della ‘ndrangheta, il film ricostruisce, come nella migliore tradizione di Daniele Vicari, ambienti, famiglie, situazioni sociali e politiche di sfondo.

Infatti, c’è molta attenzione alla microstoria dei singoli, ai particolari individuali e familiari della vita di cosca e degli individui, pedine di disegni criminosi complessi. Ma, mentre dal punto di vista tecnico, la regia di Vicari scandisce bene i diversi momenti del film e della vita di Antonio, la sceneggiatura dello stesso Vicari e di Andrea Cedrola mostra di prediligere troppo l’introspezione psicologica, a scapito dei meccanismi del potere mafioso.

Stare nella ‘ndrangheta al nord è un po’ come lavorare in fabbrica, sottotraccia e vivendo nascostamente, mentre al sud c’è un’esposizione e un tenore di vita che al nord hanno solo i rapinatori delle banche, che girano in Porsche, mentre Antonio ha una fiat 128 scassata.

Il film, e l’autobiografia, ruotano attorno al rapporto padre/figlio, i due bei personaggi di Vinicio Marchioni e Gabriel Montesi, il primo crudele, ma convenzionale, il secondo spietato ma corroso dai dubbi. Per cui alla fine il film sembra ridursi a un rapporto col padre, che senza dubbio ambisce ad avere i toni della tragedia greca, ma finisce per sfociare nel dramma familiare, donne e i figli compresi, in modo più prevedibile. (Michele Gottardi)

Voto 6

***

Aldo, Giovanni e Giacomo. Attitudini: nessuna

Regia: Sophie Chiarello

Cast: Aldo, Giovanni e Giacomo

Durata: 118’

 

Il film "Aldo, Giovanni e Giacomo. Attitudini: nessuna"
Il film "Aldo, Giovanni e Giacomo. Attitudini: nessuna"

 

Il successo di Aldo Giovanni e Giacomo nasce dalla strada.

Sembra un luogo comune ma è la verità. I primi due sono amici sin dall’infanzia tra campi di calcio e oratorio. Giacomo arriverà più tardi ma le radici proletarie sono le stesse: in fabbrica già a tredici anni e mezzo e poi addetto alle pulizie in ospedale. In comune hanno anche una comicità innata che li porta ad esibirsi sin da piccoli nei teatri parrocchiali: Aldo e Giovanni hanno una fisicità gommosa e straripante, Giacomo (che intanto fa coppia con Marina Massironi) è più clownesco.

Si incontrano, si piacciono, formano un trio inscindibile che si affaccia sulla Milano di locali storici come il Derby e lo Zelig. Sono anni di libertà creativa assoluta e per attori comici come loro, abituati all’improvvisazione, è una manna assoluta. Il produttore Paolo Guerra li prende in scuderia: AG&G si esibiscono al Circo di Paolo Rossi, conoscono Arturo Brachetti, figura essenziale del loro teatro, approdano a “Mai dire gol” e i loro sketch diventano dei tormentoni (l’“Unità” farà un pezzo sul personaggio di Tafazi, intuendo, per prima, il valore semantico del tafazzismo in politica, soprattutto nella sinistra italiana).

E, poi, arriverà, inatteso (nell’anno di “Titanic” e “La vita è bella”), il successo strepitoso del loro esordio cinematografico in “Tre uomini e una gamba”, diretto da Massimo Venier, autore di punta di “Mai dire gol” scippato alla Gialappa’s Band.

 

 

C’è tutta la storia di questo trio (ma anche delle loro individualità) e di un periodo storico irripetibile nel documentario diretto dall’italo francese Sophie Chiarello “Aldo Giovanni e Giacomo. Attitudini: nessuna” che prende il titolo da un giudizio senza speranza espresso da un professore sulla pagella di Aldo. E che rimarca come, a volte, il destino non è necessariamente quello scritto dal contesto sociale da cui si proviene.

AG&G lo hanno smentito a colpi di abilità mimica e battute fulminanti che, nel tempo, hanno cesellato e trasformato per accomodarle ovunque: teatro, cabaret, televisione, cinema.

Il documentario di Chiarello è equilibrato come i suoi protagonisti (occhio al finale sulle biciclette …) le cui confessioni davanti alla macchina da presa non sembrano mai estorte e le testimonianze conservano una irresistibile autenticità.

Come le incomprensioni che emergono: quella con la prima regista teatrale che li ha diretti e con la stessa Marina Massironi che rimane senza parole quando i tre quasi si scusano per la loro “stupida superficialità” nell’averla accantonata.

E, naturalmente, la crisi innescata dall’insuccesso di “Fuga da Reuma Park” ma capace di schiudere i talenti individuali di ognuno di loro (ancora il teatro per Giacomo, la pittura in Sicilia per Aldo e l’ecosostenibilità per Giovanni: tutti con la collaborazione e il supporto delle rispettive mogli e compagne).

Nostalgico ma mai ricattatorio, divertente ma non autoreferenziale, “Attitudini: nessuna” restituisce l’alchimia di un gruppo di artisti che poteva perdersi e che, invece, ha capito come rinascere, puntando sull’estro di Aldo e sul suo non essere codificato, sul collante di Giacomo, enzima prezioso per le reazioni chimiche del trio e sul punto di riferimento e la sicurezza rappresentati da Giovanni.

“Odio l’estate” e “Il grande giorno” sono la controprova cinematografica di una maturità che li porta a rimettersi in carreggiata ma nella consapevolezza delle proprie singolarità che si fanno miracolo quando, ora meno di prima, si fondono. (Marco Contino)

Voto: 7

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