Il critico ostinato e i vizi capitali

Stroncature e recensioni appassionate, uscite anche sui nostri quotidiani. Alberto Mattioli pubblica una raccolta di articoli su “Duemila sere all’opera”

Nicolò Menniti Ippolito
Alberto Mattioli pubblica una raccolta di recensioni su “Duemila sere all’opera”
Alberto Mattioli pubblica una raccolta di recensioni su “Duemila sere all’opera”

Cominciamo dalla fine, dall’indice dei nomi che ha vastità sorprendente. Non tanto per il numero di citati - può capitare quando si parla di cantanti, di compositori, di registi, di scenografi- ma per la varietà che spazia da Can Yaman a Karl Kraus, da Tony Effe a Saint Simon, dai Ferragnez ad Alessandro Tassoni, quello della “Secchia rapita” di scolastica memoria: tutta gente che con l’opera sembra avere poco o nulla a che fare.

Ma non per Alberto Mattioli, che superate ormai le duemila recite da spettatore e critico, continua imperterrito a frequentare con felicità i teatri d’opera.

Il perché lo spiega bene in “Il loggionista impertinente. Duemila sere all’opera” (Garzanti, p. 368, 19 euro), il suo nuovo libro, da questa settimana in libreria. I tanti nomi che affollano questa raccolta di articoli e recensioni, non sono solo frutto di un enciclopedismo a 360 gradi, che sa mescolare in modo mai banale alto e basso, pop e colto: sono, soprattutto, il modo più autentico di rispettare l’opera, che non può diventare un mondo chiuso, autoreferenziale, incapace di dialogare con la realtà che le sta attorno.

«Il teatro (tutto: cantato, parlato, danzato) può forse sopravvivere», scrive Mattioli nella introduzione, «ma di certo non vivere se è soltanto un’operazione nostalgia, rimembranza, testimonianza storica, reperto archeologico di altre epoche, o anche semplicemente di quando eravamo più giovani». Ed ecco, anche, la spiegazione del titolo del libro: il loggionista è per Mattioli un fruitore non appassito dell’opera, uno che ancora ci crede, che non partecipa a un rituale ma prova l’incanto di fronte ad una forma di spettacolo intimamente anomala, ma proprio per questo degna di passione.

Il perché lo sia, Alberto Mattioli lo spiega più volte, e in modi diversi, in questi articoli. Per esempio, recensendo il film di Pablo Larrain dedicato alla Callas, scrive: «Il film rende infatti benissimo quell’effetto di realtà̀ surreale, di emozione “larger than life”, sospesa fra vita e sogno, che è la ragione perché́ lo spettacolo più̀ insensato inventato dall’uomo resta tuttora il più̀ bello».

Parole che definiscono benissimo – con la testa e con il cuore - cosa sia l’opera, ma che sono anche un programma critico, cui Mattioli è rimasto fedele in tutta la sua vita.

Prendiamo le poche stroncature (meglio andare a vedere spettacoli che possono piacere - teorizza giustamente Mattioli) presenti nel libro: non sono mai giudizi sulle capacità di un regista, di un cantante, di un direttore, ma sulla piattezza della messa in scena o dell’interpretazione, sul ripetere formule scontate, «buone per lo spettatore-tipo della Scala di questi anni, il turista solvente che arriva overdressed per farsi i selfie» - come scrive recensendo l’edizione scaligera del “Rheingold” di Wagner per la regia di McVicar.

Di contro, per esempio, elogia Martone che per “Il barbiere di Siviglia” all’Opera di Roma durante la pandemia trasforma «le inconvenienze teatrali imposte dalla grande pestilenza in uno spettacolo nuovo, una specie di film-opera sull’opera, come un Truman Show lirico o Grande fratello melodrammatico». Questo non significa che Mattioli esalti a priori l’innovazione: anche innovando si può deragliare, produrre spettacoli che solamente orecchiano la contemporaneità, ma ciò che uccide l’opera è ripetere l’atteso, dare al pubblico quel che pigramente si attende.

Raccogliendo questi articoli (pubblicati quasi tutti negli ultimi tre anni su quotidiani come “Il foglio”, “Quotidiano nazionale”, “Stampa” i nostri quotidiani del Nordest o riviste specializzate, come Amadeus) Alberto Mattioli ha costruito un libro che sorprendentemente omogeno.

Diviso in cinque parti (Personaggi, Polemiche, Mode, Opere, Recensioni – i cinque vizi capitali del critico, si potrebbe dire) è brillantemente compattato dalla grande qualità di scrittura, dal divertimento con cui lo si legge, ma anche dalla costante difesa della natura tutta teatrale dell’opera, contro chi vi vede solo musica.

E con altrettanta forza (mai disgiunta da autoironia) Mattioli rivendica l’importanza del mestiere di critico, contro chi vorrebbe che ogni cosa si riducesse ad un “like” assegnato o meno. 

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