Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala a Capodanno
Capodanno nel segno della black-comedy del coreano Park Chan-wook con “No other choice – Non c’è altra scelta”, mentre “Norimberga” di James Vanderbilt ripercorre i giorni del celebre processo al nazismo. Per i più piccoli (ma anche per gli adulti) il gioiello di animazione “La piccola Amélie”

Il regista Park Chan-wook disegna con i toni della black comedy in “No other choice – Non c’è altra scelta” un futuro tragico per la società post-industriale dell’Occidente, in cui un “borghese piccolo piccolo” sudcoreano escogita lugubri escamotage per trovare un posto di lavoro.
“Norimberga” di James Vanderbilt ripercorre invece i giorni che portarono alla sentenza del celebre processo, filtrati attraverso il mefistofelico rapporto tra Hermann Göring e il tenente colonnello medico Douglas Kelley, psichiatra dell'esercito americano, che deve valutare la sanità mentale dell’ex maresciallo e degli altri gerarchi.
Ispirato all’autobiografia di Amélie Nothomb (Metafisica dei tubi), scrittrice belga, nata nel 1967 a Kobe, in Giappone, da genitori diplomatici, esce in sala il film di animazione “La piccola Amélie”, viaggio nei primi anni dell’infanzia, alla scoperta delle piccole cose come dei misteri più profondi in una costante esplosione di conoscenza. Regia di Liane-Cho Han Jin Kuang e Mailys Vallade. Delizioso.
No other choice – Non c’è altra scelta
Regia: Park Chan-wook
Cast: Lee Byung-hun
Durata: 139’
Il regista Park Chan-wook ci regala una black-comedy che è anche un apologo sul mondo del lavoro e sul capitalismo neo-toyotista degno del miglior Ken Loach.
Il suo “No other choice – Non c’è altra scelta” disegna bene il mondo dell’industria nella Corea del sud, dove il film è ambientato, ma anche in tutto l’Estremo Oriente asiatico, anche nella solitudine e nella tragedia di un uomo ridicolo.
Man-su, specialista nella produzione di carta con venticinque anni di esperienza, è così soddisfatto della vita da potersi dire sinceramente: “Ho tutto”. Sorta di “borghese piccolo piccolo” coreano, egli trascorre felicemente le sue giornate con la moglie Miri, i due figli e i due cani, finché un giorno viene improvvisamente informato dalla sua azienda di essere stato licenziato. “Ci dispiace. Non abbiamo altra scelta”.
Sentendosi come se gli avessero reciso la testa con un’ascia, Man-su giura di trovare un nuovo lavoro entro i successivi tre mesi per il bene della famiglia. Il tempo passa, i mesi anche: dopo un anno, disperato, si presenta senza preavviso alla Moon Paper per consegnare il curriculum, ma viene umiliato dal responsabile di linea Sun-chul.
Sapendo di essere più qualificato di chiunque altro per lavorare lì, prende una decisione: se non c’è un posto vacante per me, dovrò farmi assumere creandone uno. Il problema che i metodi e le soluzioni adottate da Man-su non sono propriamente legali, anzi.
Con uno stile tra critica sociale e humour nero, esaltato dal Fato, comune a molti registi coreani (si veda “Parasite” di Bong Joon-ho), Park Chan-wook lavora per accumulazione, accrescendo di particolari e di cicliche ripetizioni le vicende del protagonista, in una inarrestabile spirale barocca di violenze psicologiche e fisiche che portano a un finale esagerato, in cui il possibile vincitore è comunque uno sconfitto, solitario antieroe in un mondo industriale ormai rarefatto e compulsivo, che prima o poi fagociterà anche lui. Ingiustamente tralasciato dai premi dell’ultima Mostra del Cinema, “No other choice – Non c’è altra scelta” si chiude con un’ironia al vetriolo, ma in realtà sembra essere il canto del cigno di una società post industriale al tramonto. (Michele Gottardi)
Voto: 7
***
La piccola Amélie
Regia: Liane-Cho Han Jin Kuang, Mailys Vallade
Durata: 75’

Chi è Amélie? Nei suoi primi mesi di vita si percepisce come Dio, immobile, imperturbabile, onnipotente. Poi, a due anni, la consapevolezza della vita e del piacere dopo un morso ad una tavoletta di cioccolato bianco belga regalatale dalla nonna. Comincia così questo piccolo, poetico e coloratissimo film di animazione diretto dalla coppia Liane-Cho Han Jin Kuang e Mailys Vallade: “La piccola Amélie” è ispirato all’autobiografia di Amélie Nothomb (Metafisica dei tubi), scrittrice belga, nata nel 1967 a Kobe, in Giappone, da genitori diplomatici.
Il film, con disegni che ricordano il tratto e la “grammatica” di Hayao Miyazachi, è un viaggio nei primi anni dell’infanzia, alla scoperta delle piccole cose come dei misteri più profondi in una costante esplosione di conoscenza, di sinapsi impazzite e curiose nutrite grazie anche alla presenza silenziosa e complice della balia giapponese Nishio-san con la quale la bambina intreccia un legame profondissimo, arrivando a percepire il dramma della guerra e delle bombe atomiche, lo scontro culturale tra oriente e occidente e la diffidenza per lo straniero in difesa di tradizioni immutabili.
Temi densi di cui il film si impadronisce con delicatezza, senza didascalismi o derive moraleggianti con il centro di gravità permanente rappresentato da una bambina che, per prima, diventa sintesi di mondi diversi e opposti, assorbendo entusiasmi e dolori, come, di certo, non farebbe quell’impassibile tubo che era nei primi anni di vita, naturalmente incapace di trattenere qualcosa ma di essere, solo, attraversato dall’esistenza.
Distribuito in Italia grazie a Lucky Red, “La piccola Amélie” è candidato ai Golden Globe 2026 e agli EFA come miglior film di animazione, nomination che potrebbe replicare anche agli Oscar: segno che l’animazione europea (dopo il successo dello scorso anno di “Flow”) è più vivace che mai. (Marco Contino)
Voto: 7
***
Norimberga
Regia: James Vanderbilt
Cast: Russel Crowe, Rami Malek, Michael Shannon, Richard E. Grant
Durata: 148’

Il problema principale quando si rappresenta il Male, nelle immagini di un film o tra le pagine di un libro, è il rischio della condivisione, se non dell’identificazione con il personaggio principale.
Se ne discute da sempre, il problema è riemerso anche per il Mussolini di Antonio Scurati, ma più indietro nel tempo, e in un genere più nettamente storiografico, con i sei volumi sul duce di Renzo De Felice.
Questa volta il focus del grande schermo si sposta su Hermann Göring, il famigerato ex braccio destro di Hitler, e sugli altri gerarchi nazisti incarcerati dopo il crollo del regime e portati alla sbarra del processo di Norimberga.
Al centro del film di James Vanderbilt, “Norimberga” appunto, c’è il mefistofelico rapporto tra Göring e un tenente colonnello medico, Douglas Kelley, psichiatra dell'esercito americano, che deve valutare la sanità mentale dell’ex maresciallo e dei suoi accoliti.
Il film è tratto dal libro del 2013 di Jack El-Hai "The Nazi and the Psychiatrist: Hermann Göring, Dr. Douglas M. Kelley, and a fatal meeting of minds at the end of WWII", che racconta la vera storia dello psichiatra e di come e quanto incisero nella sua vita successiva quelle settimane a fianco del Male, al punto che, dopo aver contribuito a incastrare Göring, Kelley maturò sempre più la convinzione che il seme maligno gettato dai nazi fosse attecchito anche negli Stati Uniti. Morì suicida, inascoltato e depresso, nel 1958, mentre anche negli States si stavano ormai diffondendo suprematisti e neonazi.
La sua vicenda è stata ora rispolverata dall’oblio da Jack El-Hai e James Vanderbilt, che ovviamente la incentrano soprattutto sul rapporto con Göring: in effetti “Norimberga” si regge quasi esclusivamente sul confronto, sui dialoghi, sui diversi tentativi di seduzione tra i due, d’un lato l’ex maresciallo, grande manipolatore che appare fintamente indebolito dalla prigionia, impersonato da un grandissimo Russell Crowe, l’ex gladiatore qui addirittura mostruoso nel tentativo di identificarsi fisicamente col grasso gerarca e di rappresentarne tutte le possibili sfumature negative, e l’esile, minuto nel fisico ma anche nell’interpretazione, Rami Malek, già Freddy Mercury in “Bohemian Rhapsody”.
Il resto, le altre figure, dai diversi nazisti condannati e impiccati, al giudice Jackson, (Michael Shannon) e al giurista inglese David Maxwell Fyfe (Richard E. Grant), sono elementi di contorno che servono per dare struttura al film, creare ambiente, storicizzare le immagini, anche con l’aiuto di una precisa ricostruzione dell’aula e di immagini in bianco e nero e di filmati d’epoca, su cui peraltro aveva già detto molto l’omonimo film di Stanley Kramer, nel 1961.
E al di là della pur interessante messa in scena, l’obiettivo di fondo pare essere quello di risollevare l’antico quesito, «come è stato possibile tutto questo?», alla luce di recenti massacri, di guerre infinite, dell’orrore di altri genocidi da cui sembriamo spesso distanti e immuni. (Michele Gottardi)
Voto: 6.5
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