Cantieristica, una storia di visione in cinque libri

Una collana in cinque volumi della Fondazione Fincantieri con l’editore Laterza. Monfalcone e Trieste entrano in lizza ai tempi dell’impero austroungarico, Venezia cambia passo dal 1866

Andrea Giuseppe Cerra
Il varo della Kaiser Franz Joseph dal cantiere di Monfalcone nel 1911
Il varo della Kaiser Franz Joseph dal cantiere di Monfalcone nel 1911

Qual è il rapporto tra la penisola italiana e il mare che, lungo la storia, talvolta l’ha abbracciata, in altri momenti l’ha fatta sentire prigioniera? Più volte la storiografia ha affrontato il tema, si pensi agli studi di Fernand Braudel sino a quelli più recenti di Egidio Ivetic. Elemento ben diverso, nel più vasto affresco di studi, è dato dal ruolo assunto nel corso degli ultimi centosessant’anni dalla cantieristica navale.

Ricordare che in un territorio con ottomila chilometri di coste si costruiscono imbarcazioni di varia natura, offre l’opportunità di approfondire, per avere un quadro chiaro del contesto, come l’industria di settore abbia influito nel percorso storico, economico e sociale italiano. La Fondazione Fincantieri e l’editore Laterza hanno istituito una collana in cinque volumi Storia della cantieristica italiana nell’Età contemporanea che si propone di definire l’evoluzione della cantieristica italiana nel periodo che va dalla globalizzazione ottocentesca a quella del secondo millennio.

Il primo volume, ad opera di Roberto Giulianelli, storico dell’economia nell’Università Politecnica delle Marche, pone la sua attenzione sul cinquantennio che va dall’Unità d’Italia, ovvero dal 1861, sino alla conclusione dell’Età giolittiana (1913/14). Per l’Italia nascente la cantieristica è uno dei settori produttivi di maggior rilievo. La sua centralità deriva dalla naturale vocazione marittima del paese, cui si abbinano novità tecniche che rivoluzionano i trasporti navali su scala globale.

Nella prima metà dell’Ottocento ai principali cantieri del Tirreno, che fanno capo al Regno di Sardegna (Genova), al Regno delle Due Sicilie (Castellammare di Stabia) e al Granducato di Toscana (Livorno), fanno da contraltare gli stabilimenti dell’Adriatico. Questi ultimi appartengono, in piccola quota, allo Stato pontificio (Ancona) e, in massima misura, all’Impero asburgico (Venezia, Trieste).

Il panorama degli scali giuliani nel 1909
Il panorama degli scali giuliani nel 1909

Se Venezia ha nel grande arsenale di Stato l’impianto cardine di un settore composto, per il resto, da “squeri” di scala ridotta, Trieste vanta una gamma di cantieri di buon rilievo, destinati a costituire l’ossatura della navalmeccanica italiana dopo la Prima guerra mondiale, quando la città diventerà parte del Regno savoiardo. All’inizio del XIX secolo Trieste ospita strutture non solo artigianali, ma spesso anche precarie, poiché sorte allo scopo di rispondere a un’unica commessa, per essere poi smantellate al termine dell’opera.

Trieste è fra i centri mediterranei dove, come conseguenza dell’adozione di nuove tecniche mercantili e della costruzione delle ferrovie, i tempi di stazionamento dei carichi sulle banchine e nei magazzini portuali si riducono notevolmente. All’inizio del XX secolo, in seno allo Stabilimento tecnico triestino si trova il meglio della tradizione cantieristica giuliana.

Si tratta degli impianti che hanno saputo adeguarsi con maggiore prontezza ed elasticità ai tempi moderni, scanditi dal passaggio dalla vela al vapore e dal legno al metallo. Prontezza ed elasticità erano state integrate dagli aiuti di Stato, diventati tuttavia davvero significativi a partire dal 1907, quando i fratelli Cosulich decidono di costruire un cantiere a Monfalcone.

I Cosulich assomigliano ai Florio e ai Piaggio. Si tratta di un processo di integrazione che dall’armamento conduce alla cantieristica. Fino all’esplodere della Prima guerra mondiale, il cantiere di Monfalcone riceverà metà delle sue commesse dai Cosulich. Per il resto, le richieste arriveranno da altri armatori giuliani e, in piccolissima quota, dalla marina militare asburgica.

Con otto scali di costruzione, due bacini galleggianti per le riparazioni e impianti per la produzione autonoma di energia idraulica, pneumatica ed elettrica si distingue come lo stabilimento più attrezzato dell’Impero asburgico, e, a conflitto concluso, del Regno d’Italia.

Vicenda differente quella veneziana. Com’è noto, Venezia diventerà italiana solo nel 1866. Cambia repentinamente il quadro strategico e commerciale del paese, e con esso, seppur in maniera non meno rapida, la direzione degli investimenti pubblici, anche di quelli già stanziati, che prendono la via della Laguna veneta.

Per un decennio, tuttavia, la produzione eseguita nello stabilimento veneziano rimane scarsa, sino alla commessa per la corazzata Francesco Morosini (11.200 tonnellate di stazza, tra il 1881 e il 1885). All’alba del Novecento, la Regia marina assegnerà all’impianto veneziano, forte di quattromila addetti, la fabbricazione dei suoi primi sommergibili: cinque unità della classe Glauco. A ridosso del conflitto mondiale, lo stabilimento sperimenterà la produzione di idrovolanti. Emerge come nella navalmeccanica italiana del primo Novecento elementi di modernità e persistenze anacronistiche finiscono per convivere, disegnando un profilo dai tratti irregolari con il quale il settore si affaccia sulla Grande guerra. —

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