La Biennale Musica di Caterina Barbieri: «Un desiderio di vastità»
La nuova direttrice della Biennale Musica, Caterina Barbieri, presenta il Festival che inizia l’11 ottobre. «Somiglierà a Venezia. E farà dialogare generi, tradizioni e generazioni diverse»

Sintetizzatori e musica antica, le campane e i motori dei vaporetti. L’acqua, il suo rumore che diventa suono. Strumenti classici ed elettronica insieme. Cortei di barche, isole segrete e un bar come punto di ritrovo che si chiama Lsd, come le iniziali del titolo di questa Biennale Musica che sta per cominciare, “La Stella Dentro”.
«La notte che mi hanno proposto l’incarico non riuscivo a dormire pensando a cosa avrei voluto fare. Così sono andata a San Marco, ho aspettato l’alba e ho visto le ultime stelle. Lì è nato tutto».
Quello che è nato è un Festival diverso da quelli del passato («Non è una rottura, solo un cambiamento»). E dietro a tutto questo c’è Caterina Barbieri, 35 anni, al primo anno di direzione della Biennale Musica - anche se a lei piace chiamarla curatela.
Formazione classica a Bologna, sua città natale, poi l’incontro con l’elettronica e il trasferimento a Berlino, Barbieri si è rapidamente calata nella realtà di Venezia, prendendo casa e ispirazioni.
«È qui che mi è venuta l’idea di fare qualcosa che renda l’idea della musica come desiderio di vastità e che ne racconti anche la mutevolezza, che somiglia molto a quella di Venezia dove certi giochi di luce conducono a una dimensione di apertura all’infinito».
La presenza dell’acqua nel Festival salta agli occhi immediatamente.
«Molti lavori dialogheranno con l’acqua, è vero. L’evento di apertura sarà un corteo di barchini nel canale di Sant’Elena che si concluderà con un concerto di Chuquimamani-Condori e di suo fratello, davanti all’acqua. Loro arrivano dalla Bolivia, mi piace l’idea di creare connessioni fra tradizioni diverse oltre che tra generi musicali. Ma ci sarà anche un concerto di piano e percussioni sopra i rumori del motore di un vaporetto. E, alle Tese, un’opera site specific che farà dialogare un organo con il suono dell’acqua dentro alcuni contenitori».
In questo festival c’è tanta musica elettronica, ma ci sono anche generi molto diversi. Che segno vuole dare con questa varietà?
«Vorrei andare oltre i recinti di genere e anche geografici per celebrare il potere metamorfico della musica. E dare una scossa per aprire uno sguardo sul contemporaneo».
Come ha scelto gli artisti? Ed è vero che avrebbe voluto trovare più artiste italiane?
«Ho viaggiato molto e ho conosciuto tanti artisti, ne ho scelto alcuni. Avrei voluto dare anche più spazio a voci che restano ai margini, per esempio alle donne che fanno elettronica, ma non è stato facile e non era comunque un elemento programmatico. In Italia non è facile trovarne, qualcuna c’è - anche se a volte non è valorizzata - e altre le troverò per l’anno prossimo».
È chiara anche la scelta di dare spazio ad artisti giovani. Perché?
«Volevo che il Festival fosse un luogo di incontro fra diverse generazioni. Ci sono progetti che mettono insieme nomi affermati e altri che arrivano dalla Biennale College, che offre residenze artistiche a sostegno di nuovi lavori. E il cui tema era proprio l’ibridazione fra elettronica e timbri tradizionali».
Alla luce di questi esperimenti di dialogo, si può parlare di diplomazia della musica?
«La musica educa, spinge a esercitare l’empatia e ci fa entrare in connessione con dimensioni altre, proprio come succede quando guardiamo il cielo e ci mettiamo in ascolto. In questo senso sì, la musica fa entrare in risonanza corpi differenti e crea coesione sociale».
Come spiega la sua passione per la musica elettronica a chi la conosce poco?
«La sensualità del suono è quello che mi ha conquistata dell’elettronica. La fisicità dell’esperienza sonora. Perché la musica è coinvolgimento mentale, certo, ma anche vibrazione fisica, che va oltre lo stile e il genere Nell’elettronica questo è un aspetto che viene valorizzato».
Come giudica il ricorso, già molto frequente, all’intelligenza artificiale nei processi di composizione?
«Se l’intelligenza artificiale fa musica, gli artisti non hanno più un ruolo. Io trovo fertile il ricorso alla tecnologia, ma l’IA è troppo sofisticata e crea superfici piatte, poco interessanti perché viene meno quella dimensione di mistero e di tensione che fa scattare la scintilla della creatività. Dubito che da lì possa venir fuori qualcosa di nuovo, mi sembra più una rimasticazione dell’esistente».
In questo Festival ha voluto anche un luogo di incontro. Come funzionerà?
«Sarà uno spazio per trovarsi tra un concerto e l’altro, per parlare, ascoltare musica dal vivo. Gli artisti proporranno sessioni di ascolto. L’abbiamo chiamato Lsd Center, sarà nella Sala d’Armi G e sarà un bel posto per esplorare la dimensione della musica immersiva».
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