Accettare: l'attitudine unica di Sinner il vincente

Il numero uno del mondo ha scelto questo vocabolo nelle interviste, una parola inaspettatamente forte: un’arma, stiamo parlando di questo. Jannik l’ha incamerata nel suo vocabolario interiore; la conseguenza è che è ancora più difficile fermarlo

Fabrizio BrancoliFabrizio Brancoli
L'esultanza di Jannik Sinner dopo la vittoria
L'esultanza di Jannik Sinner dopo la vittoria

C'è una parola che Jannik Sinner ha ripetuto più di ogni altra dopo la vittoria a Wimbledon. È accettare. Il numero uno del mondo ha scelto questo vocabolo nelle interviste, anche tre o quattro volte nella stessa risposta, in mezzo alle frasi di circostanza, ai messaggi di affetto e a qualche considerazione tecnica. Un mantra, tra le righe. Non è nuovo, l’ha usato già, specie nel 2024, l’anno del tormento: in agosto dopo il forfait alle Olimpiadi, in ottobre a Shanghai per l’asian swing, a novembre a Torino per le Atp Finals.

Accettare cosa? Il fatto che Carlos Alcaraz lo prendesse a sberle per quattro games di seguito, vincendo in rimonta il primo set. Ma anche cose più grandi. Accettare gli errori e le sfortune, accettare ciò che non puoi cambiare. Accettare che perdi Parigi con tre matchpoint a favore, accettare di farti squalificare per tre mesi e che ti diano del dopato, tu che non lo sei; accettare che ti diano del traditore per l’assenza ai Giochi o che facciano le radiografie alla tua ragazza, alla tua famiglia, alla tua posizione fiscale, al tuo gomito, agli spot che giri, ai campi dove ti alleni. Accettare, imparare, migliorarsi. Non una resa; è più un gesto generativo. È il tratto forse più profondo di questo trionfo. Una curva emozionale, un superpotere poco condiviso, di solito assente nell’arsenale di un ventitreenne.

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La redazione
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Sconfitto a Parigi, ha sofferto. E poi? E poi l’ha accettato. «Fa male, ma non puoi continuare a piangere», ha detto. Ha perso con Bublik a Halle e l’ha accettato, reagendo nel modo che gli hanno insegnato due genitori straordinariamente normali: si è messo a lavorare. Non si è irrigidito. Sa mettere in ordine il proprio caos interiore.

Il suo gioco è mutato grazie a quell’attitudine. Wimbledon, che punisce spietatamente il tennis troppo lineare, è stato il teatro di uno scatto tecnico: adattamenti nelle traiettorie, variazioni al servizio, cambi di ritmo, l’uso dello slice che non apparteneva ai suoi automatismi, l’idea di esplorare il centro del campo, le risposte alternate tra difesa e contrattacco, le discese a rete mirate, le palle corte, i tagli assortiti. Ha accettato le regole della superficie e le ha interpretate, in alleanza strategica con un team che ha saputo reinventarsi, dopo scelte difficili come la perdita del preparatore atletico e del fisioterapista nel torneo nel quale, poi, arriva un infortunio. Non è solo talento: è lucidità nella gestione delle fratture emotive, tecniche, organizzative, comportamentali.

Sinner, con 4 Slam, è un treno in corsa. Ma la velocità non è tutto: conta la direzione e lui la conosce. In ottica Career Grand Slam, i margini sono reali. Il percorso potrà essere accidentato? Certo, basta vedere che cosa stava succedendo con Grigor Dimitrov, sfortunato angelo del tennis, che, prima di farsi male, lo stava battendo. In ogni caso Sinner, posto davanti a ostacoli, accetterà anche quelli.
Al suo fianco cresce la figura di Carlos Alcaraz. Hanno trasformato il circuito: un doppio scossone generazionale. Questa nuova storia di rivalità si fonda su un’ammissione: entrambi sembrano sapere che la strada per la vittoria passa anche attraverso l’imperfezione. E questo è anche il Wimbledon della consapevolezza per il tennis italiano, che dopo decenni di talento diffuso ma occasionale, ora ha un campione epocale e un sistema di fuoriclasse. Sinner non cambia solo il proprio cammino; cambia il paesaggio.

Alla fine resta quel verbo. Accettare. Una parola inaspettatamente forte: un’arma, stiamo parlando di questo. Jannik l’ha incamerata nel suo vocabolario interiore; la conseguenza è che è ancora più difficile fermarlo. Ora sa danzare nella pioggia, come direbbe Khalil Gibran.

Nelle stanze di Wimbledon si transita in silenzio. Sulla moquette soffice dell’All England Club, Jannik Sinner per molti giorni ha percorso i corridoi della gloria, che connettono gli spogliatoi con il centrale. Ai piedi delle scale e a fianco di una preziosa vetrinetta – quella che santifica i trofei in palio – c’è la grande porta a due ante, di legno lucido. Spingi i listelli in ottone ed entri nella suprema cattedrale del tennis, atteso da 15mila fedeli di questa religione sportiva fatta di completi bianchi e di tensioni estreme. Sopra la porta è incisa la famosa frase di Rudyard Kipling, dalla poesia “If” – scritta nel 1895 quando Wimbledon si giocava già da 22 anni ispirata da Leander Starr Jameson e dedicata al figlio dell’autore. “Se riuscirai a confrontarti con il trionfo e la rovina, e trattare allo stesso modo questi due impostori. ..”.

Quando passa da lì, Jannik alza un braccio e con la mano sfiora le parole di 130 anni fa. Che cosa insegnano? L’accettazione. —

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