Paolo Benanti: «L’uomo non è un algoritmo, serve un nuovo umanesimo nell’era dell’AI»
Il teologo e filosofo invita a riaffermare la centralità dell’intelligenza umana e a sviluppare un’“algoretica” per una sostenibilità digitale al servizio della dignità

L’uomo è un algoritmo? Lo spinoso interrogativo viene posto, senza mezzi termini, dal teologo e filosofo Paolo Benanti in un recente saggio edito da Castelvecchi. Difendere la superiorità dell’uomo nel “villaggio globale tecnologico” che è il “liquido amniotico” che ormai ci nutre fin dai primi vagiti, non è operazione semplice.
Il mito di Ulisse ci insegna che la ricerca umana è ispirata dalla curiositas e guidata dall’intelligenza. Nello studio vengono evocate due declinazioni di questa facoltà superiore, che i greci chiamavano “nous” e “metis”. Dalla sinergia di queste facoltà sono nate le grandi invenzioni che segnano la nostra specie, a partire dalla «grande invenzione del linguaggio».
Oggi però il linguaggio non sembra più una prerogativa esclusivamente umana: l’Intelligenza Artificiale, nelle vesti di ChatGPT e dei Large Language Models (LLM), ha introdotto una lingua computazionale che riconfigura in modo nuovo parola e pensiero. Perciò si impone una riflessione di natura etica sui paradossi della tecnica. Muovendosi tra informatica, filosofia e spiritualità – da Turing a Searle, da Scheler a Jonas – Benanti avanza una proposta semplice ma dirompente: proviamo a riaffermare la ricerca per un nuovo umanesimo per vivere una vita buona e consapevole. L’intelligenza algoritmica deve tornare a essere uno strumento nelle nostre mani, al servizio della piena dignità umana. È alle università, oggi, che spetta il compito fondamentale di creare nuovi «paesaggi culturali», dove ritrovare il senso delle nostre creazioni e delle nostre vite.
Affrontare la svolta radicale che abbiamo di fronte rimane l’interrogativo di fondo per educatori e classi dirigenti. “La condizione tecno umana da una continua sfida rispetto all’ambiente. La tecnologia è uno strumento di adattamento e sopravvivenza, ma anche una leva per andare oltre. Il linguaggio è la traccia di un eccedenza umana che aspira a superare il regno del visibile, è una tecnologia, che come tale ha la necessità di essere affinata, che si evolve nel tempo, che vive un suo divenire. Con il linguaggio l’individuo crea il mondo simbolico, attribuendo significati presuppone il dialogo, come requisito essenziale della sua stessa natura, come porta dell’apprendimento.
Torna di attualità la lezione di Eco che teorizzava la differenza sostanziale tra informazione cibernetica e informazione semantica. Nell’era del “testo computato” introdotta dal salto quantico apportato dalla digitalizzazione dei contenuti, si è allargata a dismisura la possibilità di veicolare messaggi, idee, pezzi di realtà.
Ma l’informazione semantica è qualcosa di più della potenza riproduttiva che sofisticati software oggi consentono, richiede pensiero critico, selezione e interpretazione dei big data che sono il nuovo petrolio dell’information society. La costruzione automatica di frasi di senso che le intelligenze generative (Chat GPT rimane il caso più affascinate e dibattuto) ben istruite sanno mettere in campo non può né mimare né riprodurre l’intenzionalità della coscienza umana.
L’AI che oggi sfida l’individuo nelle facoltà superiori si basa su correlazioni statistiche, non riesce a controllare la semantica delle frasi, la loro correlazione con il contesto che le rende mutanti, sempre diverse. Questo lo sa fare solo l’intelligenza umana, marcando una differenza incolmabile con i sistemi algoritmici. Se ormai “l’anima del mondo” è data dal software, il vero tesoro che muove economia e società, l’algoretica, neo disciplina oggi teorizzata da molti studiosi, può essere una strada per affermare una “sostenibilità” digitale, indirizzando finalmente gli esiti della tecno scienza verso la soddisfazione dei bisogni di una famiglia umana, lacerata dai conflitti e sempre più attraversata da una crescente sfiducia nel futuro.
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