Il canone Armani
Ha ridisegnato il concetto di stile partendo dall’essenzialità: il suo tratto era abbattere le barriere. La sua donna perfetta: Cate Blanchett


«I cretini non sono mai eleganti». Lo diceva con una lama di ironia, senza nessun bisogno di spiegare oltre. Perché chi è privo di misura, chi non sa guardare, chi non comprende il peso del silenzio, non potrà mai essere elegante.
La poetica di Giorgio Armani è stata questa. Non partiva dal tessuto, non dall’orlo, non dalla giacca. Partiva dall’intelligenza, dalla necessità di dare al corpo una grammatica che non tradisse la mente. È stato il suo vero atto creativo: non soltanto inventare un modo di vestire, ma emancipare uomini e donne dagli schemi, trasformando la moda in una forma di libertà quotidiana.

«L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare». Armani ha ridisegnato il concetto di stile partendo dall’essenzialità. Giacche destrutturate, pantaloni morbidi, tessuti leggeri e linee pulite: un colpo di spugna contro la rigidità sartoriale. In quegli Anni Settanta segnati dalla contestazione, comprese che anche la moda doveva liberarsi. Il suo genio era nell’abbattere le barriere di genere e nel fondere scioltezza e rigore, comodità e charme.
Donne vere, che vivono e lavorano
«Ho dato all’uomo la morbidezza della donna, e alla donna il comfort dell’uomo». Lavorava pensando a «donne vere, che vivono e lavorano», non a figure idealizzate. La sua è stata rivoluzione silenziosa, fatta di tailleur femminili che scardinavano i codici, liberavano il corpo dalle costrizioni e restituivano autorevolezza a chi li indossava.

Nato a Piacenza l’11 luglio 1934, aveva iniziato studi di medicina, abbandonati poi presto. Vetrinista alla Rinascente, stilista da Cerruti, poi nel 1975 la fondazione della Giorgio Armani S.p.A. con il compagno Sergio Galeotti. Fu Galeotti, uomo di visione e fiuto imprenditoriale, a spingerlo a lasciare la sicurezza del posto fisso per rischiare in proprio. La loro unione fu tanto creativa quanto affettiva, e la morte prematura di Galeotti nel 1985 rappresentò per Armani una ferita profonda. Non si arrese: trasformò il dolore in energia, la memoria in missione. Da allora ogni passo della sua ascesa è stato anche un modo per onorarlo.

Il prêt-à-porter
Da lì una cavalcata inarrestabile: prima il prêt-à-porter maschile, poi il femminile, le linee giovani, gli accessori, i profumi, fino a costruire un impero da 2,4 miliardi di ricavi nel 2024. Il salto planetario avvenne nel 1980, quando Richard Gere in “American Gigolò” indossò i suoi abiti destrutturati. Paul Schrader voleva raccontare un nuovo tipo di uomo, e Armani incarnava quella visione. Gere recitava, ma era anche lo specchio del suo guardaroba. Quel film divenne manifesto di stile, e Armani conquistò Hollywood. Non si fermò lì: firmò oltre 200 costumi per il cinema, da “Gli Intoccabili” a “Quei bravi ragazzi”, fino a “The Wolf of Wall Street”.

Le muse non gli sono mai mancate. Cate Blanchett, definita «la donna perfetta», è stata la sua ambasciatrice globale. Prima ancora Sophia Loren e Claudia Cardinale, poi Julia Roberts, Nicole Kidman, Michelle Pfeiffer, Madonna, Lady Gaga, Rihanna: ognuna ha trovato nei suoi abiti la cornice ideale per esprimere carisma e personalità. Anche gli uomini – da Tom Cruise a Brad Pitt – hanno contribuito a rafforzare l’aura di un marchio che ha vestito il potere, il glamour e le ribellioni.
L’icona culturale
Armani non è stato soltanto moda. È stato icona culturale. La copertina di Time nel 1982 – “Giorgio’s Gorgeous Style” – lo consacrò re della moda mondiale. Nel 2000 il Guggenheim di New York gli dedicò una retrospettiva monumentale. La stampa internazionale, a cominciare da quella britannica, lo battezzò “Re Giorgio”, appellativo nato negli Anni Settanta come riconoscimento alla sua regalità estetica. Un titolo rimasto inciso nella memoria collettiva: Armani non era soltanto uno stilista, era un sovrano che governava con discrezione, disciplina e misura.
La sua filosofia non si è mai piegata alle mode passeggere. La sua ossessione era la qualità, il controllo assoluto su ogni dettaglio: «L’80% di ciò che faccio è disciplina. Il resto è creatività».

Fino alla fine
Ha lavorato fino agli ultimi giorni. La cura maniacale per le vetrine in via Montenapoleone. Lui personalmente le controllava. Sempre al comando, unico azionista, direttore creativo e amministratore delegato del suo gruppo. In una delle ultime interviste, al Financial Times del 30 agosto 2025: «Vorrei che la successione fosse organica, non un momento di rottura». Aveva preparato tutto: Leo Dell’Orco, braccio destro e compagno, e le nipoti Silvana e Roberta erano i prescelti per proseguire il cammino. Ammetteva però: «La mia debolezza è il bisogno di controllare tutto». Nell’intervista parlava con orgoglio della coerenza del suo stile: ciò che aveva creato cinquant’anni fa, era ancora apprezzato da giovani e adulti. E ricordava i nuovi progetti, come l’acquisto della Capannina di Forte dei Marmi, testimonianza di un brand ormai trasversale.
Del Vecchio
Accanto alle passerelle, c’è un capitolo che racconta un’altra parte della sua parabola. Uno emblematico quello con Leonardo Del Vecchio. Insieme rivoluzionarono il mercato degli occhiali, trasformandoli da strumenti funzionali in accessori di moda, specchi di personalità. Poi lo sport. La sua seconda ossessione. Era proprietario dell’Olimpia Milano. Sotto la sua guida la squadra ha conquistato sei scudetti e diversi trofei. Da questa passione nacque nel 2004 la linea EA7 di Emporio Armani, ispirata ai valori di sacrificio, disciplina e spirito di squadra. oggi sponsor tecnico del Coni e della nazionale paralimpica e dal 2022 della Fisi. Armani ha vestito gli atleti azzurri alle Olimpiadi estive di Londra 2012 e a quelle invernali di Sochi 2014, e continuerà a farlo ai Giochi di Milano-Cortina 2026. Una delle sue ultime apparizioni pubbliche risale a maggio, quando ha presentato le divise ufficiali per la squadra olimpica e paralimpica italiana.
Il suo regno non finisce con gli abiti. Armani lascia un impero, ma soprattutto un modo di guardare il mondo.
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