L’apocalisse del lavoro con l’Ai generativa: quando un computer licenzia il cervello
A rischio anche le professioni che si credevano al riparo dall’automazione: «Servono elasticità e responsabilità»

Traduttori, programmatori junior, giornalisti, grafici. L’intelligenza artificiale generativa sta scardinando le solide certezze dei colletti bianchi, quelle professioni cognitive che pensavamo al riparo dall’automazione grazie alla creatività, alla sensibilità culturale, alla capacità di comprensione del contesto.
Luca Bortolussi, prorettore per la Trasformazione digitale dell’Università di Trieste e capo dell’Ai Lab, inquadra la portata del cambiamento: «Per la prima volta nella storia, una rivoluzione tecnologica colpisce più i cervelli che le braccia».
I dati lo confermano: uno studio del British Standards Institution condotto in sei paesi rivela che il 41% delle aziende, di fronte a nuove necessità lavorative, esplora soluzioni basate sull’Ai prima di considerare l’assunzione di un essere umano. Il risultato? Una riduzione dei due quinti delle posizioni disponibili per neoassunti, con ulteriori tagli preventivati per il 2026. Tanto che c’è chi parla di “jobpocalypse”.
Chi lavora con le parole è più esposto
Un’analisi di Microsoft Research su oltre 200 mila conversazioni con Copilot rivela che le attività più replicate dall’Ai sono proprio quelle cognitive: ricerca di informazioni, scrittura, revisione di testi. Le figure più esposte sono dunque quelle che lavorano con le parole: traduttori, autori, giornalisti, analisti, venditori, consulenti. Quando al festival Trieste Next Bortolussi ha visto in azione i sistemi di traduzione basati sull’Ai, è rimasto colpito dalla loro precisione. Gli interpreti dovranno ripensare il loro ruolo, e probabilmente ne serviranno molti di meno.
Programmatori e copiloti
Negli Stati Uniti studiare informatica a basso livello sembra perdere appeal. Le Big Tech licenziano, il mercato appare saturo. Ma l’analisi di Bortolussi è più sfumata: l’Ai generativa funziona come “copilota”, accelerando la scrittura del codice per chi sa già programmare. E la programmazione si trasforma: dove prima servivano tre persone, potrebbe bastarne una.
Ma un domani l’Ai potrà gestire tutto autonomamente? «Non lo sappiamo», risponde il prorettore con onestà intellettuale. Il punto cruciale resta la responsabilità e la supervisione umana. Un elemento, sottolinea Bortolussi, «non eliminabile». L’Ai aumenta la velocità di produzione, riduce il numero di persone necessarie, ma la visione umana rimane indispensabile.
Competenze e flessibilità
Di fronte a questo scenario fluido, quale formazione serve? Bortolussi è netto: serve «un cocktail di competenze», non perseguire l’iperspecializzazione. Concentrarsi su una nicchia ristretta diventa infatti rischioso: se quella nicchia diventa obsoleta, rischi di diventarlo a ruota anche tu. Fondamentale resta il pensiero computazionale: un approccio razionale e procedurale alla soluzione dei problemi. E soprattutto la capacità di imparare e di stare al passo con le trasformazioni.
Scelte sociali, non solo tecnologiche
Bortolussi non nasconde l’incertezza: le trasformazioni potrebbero svilupparsi in direzioni imprevedibili. L’avvento di queste tecnologie potrebbe creare nuove necessità, riassorbendo buona parte del lavoro che viene a mancare su altri fronti.
C’è anche chi vede nell’Ai anche un’opportunità per far fronte alla demografia: l’Economist sostiene che la riduzione della forza lavoro legata al calo demografico potrebbe essere compensata dall’automazione. Ma servono scelte consapevoli. In una società ideale, l’automazione permetterebbe di ridistribuire i carichi: non licenziare due persone su tre lasciandone una oberata, ma far lavorare tutti meno ore, garantendo più tempo per la vita privata.
Utopia? Bortolussi è chiaro: dipende da scelte che non riguardano l’Ai in sé, ma società e sistema economico. Il rischio, se ci si focalizza su ritorni immediati, è di «creare problemi strutturali e un collasso nella società che forse non saremo in grado di gestire».
Per Bortolussi è indispensabile che da parte di tutta la società vi sia «partecipazione e consapevolezza», perché «queste decisioni cruciali non finiscano in mano a pochi o siano dettate da logiche di breve termine». Con un’urgenza inedita, perché il futuro si scrive adesso
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