Test di medicina abolito, il cardiochirurgo Gerosa: «Un semestre insufficiente a valutare»
Il luminare della Cardiochirurgia dell’Azienda Ospedale-Università di Padova: «Piuttosto si escludano i fuoricorso. Va ridisegnato il sistema. Medici costretti a mansioni esercitabili da amministrativi»

«Prima di commentare questa nuova disposizione decisa dal Parlamento, vorrei fare una premessa».
Prego...
«Il nostro compito primario, come professori universitari, è fare formazione in maniera impeccabile, garantendo le aule, i docenti e, in generale, una logistica adeguati al numero degli studenti. E da questo non si scappa. A questo non c’è soluzione».
Così Gino Gerosa, luminare della sanità veneta, al vertice dell’Uoc di Cardiochirurgia dell’Azienda Ospedale-Università di Padova. È la sua premessa, prima di commentare le nuove disposizioni per l’ingresso alla facoltà di Medicina e Chirurgia: non più test di ingresso, ma una selezione posticipata, fatta a partire da una graduatoria nazionale, sulla base dei risultati ottenuti nei tre esami di scienze di base previsti nel primo semestre.
E lei cosa pensa?
«Che il vecchio quiz non garantiva l’ingresso dei medici migliori e più motivati. Ma penso pure che posticipare la selezione di un semestre sia una scelta-non scelta. E che l’apertura indiscriminata porterà con sé tutti i problemi logistici, non risolvibili, di cui parlavo prima».
E, allora, lei cosa farebbe?
«Probabilmente dovremmo adottare un sistema simile a quello anglosassone, nel quale la figura dello studente fuoricorso non è prevista. Semplicemente: sei fuoricorso? E allora sei fuori».
Il sistema che sarà adottato dall’anno prossimo, con la possibilità di proseguire gli studi subordinata al percorso positivo nel primo semestre, ci si avvicina.
«Ma un semestre non è sufficiente per fare una valutazione adeguata, è uno spicchio temporale eccessivamente limitato. E poi faccio notare che le nostre facoltà dovranno fronteggiare, sempre di più, la competizione degli atenei privati e telematici, che si stanno affacciando, approfittando dei limiti “fisici” delle Università statali».
In sostanza, la sua è una bocciatura di questo nuovo sistema...
«Io dico semplicemente che, a maggior ragione da quando è stato abolito l’esame di Stato, è importante esercitare un “controllo” sugli studenti che laureiamo, perché, da medici, si rivelino impeccabili, sotto ogni punto di vista. Per questo, è già la formazione universitaria a dover essere impeccabile. Ma questo introduce un’altra variabile: una volta che abbiamo investito su questi ragazzi, dobbiamo permettere loro di restare ed esercitare la loro professione in Italia».
Insomma, c’è un problema strutturale...
«Sì, il problema è molto più complesso e non può essere ridotto al semplice dibattito su numero chiuso e test d’ingresso. È l’intero sistema a dover essere ridisegnato, è il percorso formativo a dover essere rigovernato. Sono le figure sanitarie a dover essere ricollocate a livello professionale, sociale ed etico. Tutte, certo, ma con un’attenzione particolare alle specialità che vedono numeri di iscrizione, alle relative scuole, sempre più bassi. Soltanto quando riusciremo a restituire a questa figure una centralità all’interno del sistema sanitario, allora potremo garantire la permanenza dei nostri giovani professionisti negli ospedali italiani. Se continueremo a non farlo, allora ribadire che dobbiamo fare di tutto per mantenere qui i nostri medici è velleitario».
Ma secondo lei esiste un problema di carenza di medici, in Italia?
«Penso che oggi, in Italia, i medici debbano adempiere a molte mansioni che potrebbero benissimo essere coperte da altre figure professionali, di tipo amministrativo o sanitario. E questo riposizionerebbe il medico all’interno della piramide decisionale. Ma, forse, il problema è proprio questo: probabilmente è un riposizionamento che non è visto di buon occhio da tutti, a livello politico e a livello amministrativo». —
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