La storia di Elisabetta, primo trapianto di cuore pediatrico in Italia: «Quel cuore era un intruso»
A 13 anni Elisabetta Nobili fu la prima paziente pediatrica in Italia a ricevere un trapianto di cuore all’ospedale di Padova. Oggi, 38 anni dopo, racconta gratitudine, rabbia, il lungo percorso psicologico e il legame con la donatrice Alessandra. «Padova mi ha dato una seconda vita»

«È arrivato il tuo cuore mi disse una voce al telefono. Rimasi scioccata. La mamma era fuori, avvertii nonna Emma e poco dopo passò l’ambulanza a prendermi». Elisabetta Nobili, 53 anni, ferrarese, ha gli occhi grandi, profondi, fragili e potenti insieme, nei quali si scorge la ragazzina che 38 anni fa, il 24 marzo 1987, a 13 anni, fu la prima in Italia a subire un trapianto di cuore in età pediatrica nell’azienda ospedaliera di Padova.

La sua è una storia straordinaria. Il professor Alessandro Mazzucco, allievo e brillante collaboratore del professor Vincenzo Gallucci, le aprì il petto, da dove oggi si posa il ciondolo della collanina che indossa, fino a giù, sotto il seno. Le trapiantò quel pezzo in più, con cui Elisabetta ancora oggi fa i conti. «Provo gratitudine e rabbia insieme. Non è un pezzo qualsiasi, per i bambini è la sede dei sentimenti, per anni l’ho chiamato l’intruso» dice davanti ad un cappuccino con il latte senza lattosio.
Elisabetta è nata con problemi di cuore?
«No, mi ammalai a un anno e mezzo: malessere, tosse, i miei genitori mi portarono da tanti specialisti, finché non arrivammo a Padova. Avevo la miocardiopatia dilatativa: quando il cuore batteva si ingrossava e sbatteva contro gli altri organi».
La malattia che conseguenze fisica le portava?
«Mi sentivo debole, non potevo giocare, fare le scale, andare al mare, in montagna, mi portavano solo al lago. Non ho frequentato l’asilo, a 10 anni ebbi un’embolia e smisi di andare a scuola. Il dottor Pellegrino, che mi seguiva, disse ai miei genitori che l’unica possibilità era un trapianto di cuore».
Rischiava di morire?
«Mi avevano dato sei mesi di vita».
I suoi genitori le dissero subito la verità?

«L’avevo capito da sola. Lo sentivo dentro di me e lo vedevo negli occhi dei miei genitori».
L’ambulanza arrivò e la portò a Padova. C’è un’immagine, un odore, una voce che le è rimasta impressa di quel mese di ricovero?
«La voce dell’infermiera che era con me quando uscii dalla sala operatoria. Mi misero in una stanza asettica, c’era lei, Roberta, che ho rivisto qualche anno fa. Io ero terrorizzata. La voce era tranquilla, mi ha dato forza e speranza. Poi ricordo il volto rassicurante di suor Tiziana».
Che rapporto ha, oggi, con l’idea di avere un cuore che non è quello con cui è nata?
«Oggi la vivo bene, ma ci sono voluti anni di psicoterapia. La salute mentale è molto importante per chi subisce un trapianto, ma anche per la famiglia del paziente. I miei genitori mi hanno voluto bene, ma mi hanno protetto troppo, mi hanno messo sotto una campana di vetro e trasmesso molta ansia. Tuttora lo fanno: attenta, non fare questo, non fare quello, non correre, non saltare. Non mi hanno abituata al mondo. A volte addirittura dicevo bugie per non farli preoccupare».
Che ragazzina era?
«Magrissima, paurosa, taciturna, con le occhiaie. Se penso com’ero e come sono diventata oggi, è un miracolo».
Quanto pensa alla persona che le ha donato il cuore?
«Si chiamava Alessandra, era una ragazzina della provincia di Milano, morì in un incidente. È qui con me, sempre».
Come conosce il suo nome e la sua storia?
«Quando sono stata operata è venuta una sua parente, era legata a una persona che abitava nello stesso paese di mio papà, in provincia di Ferrara. I miei genitori e quelli di Alessandra si mandano fiori all’anniversario di morte e a quello del mio trapianto. Ricevetti un biglietto per il mio matrimonio».
Chi si sente di ringraziare?
«I medici, la famiglia, soprattutto il mio babbo che è sempre stato presente, chissà che cosa ha patito, mi prendeva in braccio e mi portava in bagno quando mi facevano la coronarografia».
Come convive con la vistosa cicatrice nel petto?
«L’hanno chiusa con il laser, non mi lamento, la faccio vedere, se non ci fosse non sarei qui. L’ho sempre portata con orgoglio, anche se da piccola mi dicevano di coprirla. Non mi sono mai fatta problemi, anzi».
Ha riportato conseguenze emotive?
«Quando sono con altre persone a volte ho paura».
Paura di cosa?
«Di non essere come gli altri, mi sento inadeguata».
Perché dentro di lei ha un organo che non sente suo?
«Per anni l’ho chiamato l’intruso. Mi sentivo in difetto. Non ero pronta all’operazione, dovevo essere preparata psicologicamente. Mi avevano privato di qualcosa che è stato sostituito con qualcos’altro che non mi apparteneva. Ero arrabbiata. Dentro di me hanno convissuto sentimenti contrastanti. L’ho accettato con l’aiuto della mia psicologa. Il grande passo l’ho fatto tre anni fa, quando il mio medico, il dottor Nicola Pradegan, mi ha detto: “Secondo me puoi andare avanti anche senza prendere il farmaco antirigetto”. Il cuore ora è una parte di me e faccio di tutto per proteggerlo».
Che rapporto ha avuto con il farmaco antirigetto?
«Mia madre mi metteva le goccine nel latte. Oggi ci sono le pastiglie, il mio è un dosaggio molto basso».
Il miracolo è che in questi 38 anni è sempre stata bene.
«Sì, sto bene, anche se ogni piccolo mal di pancia, eritema, mal di testa, penso sia dovuto al cuore. Faccio sport, ma sono pigra».
Ha pensato di incontrare i genitori della sua donatrice, Alessandra?
«Mi sono informata, ho fatto delle ricerche su internet. So dove abitano. Qualche anno fa volevo conoscerli, ma non ho avuto il coraggio di bussare alla loro porta».
Lo farà?
«Credo di no. Penso che per loro sarebbe un’esperienza troppo forte emotivamente, non voglio destabilizzarli».
Le conquiste quotidiane che sente più preziose?
«Il lavoro, la salute, che per me non è scontata. Il rapporto con mia sorella, i miei genitori. Oggi sono forte, ma per certi aspetti mi sento ancora piccola. Ho perso tutta l’infanzia».
Ha fede?
«I medici sono stati straordinari, ma i piani alti ci hanno messo lo zampino sicuramente».
Cosa augura ai piccoli futuri pazienti trapiantati di cuore?
«Dico a tutti di donare gli organi, ce n’è tanto bisogno. Si salvano fino a otto vite».
Progetti per il futuro?
«Sono talmente grata alla città di Padova che prima o poi vorrei viverci. Mi ha donato una seconda vita».
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