Diritto alla salute e medicina umanistica, Antonini: «Riportare le persone al centro»
Intervista al vicepresidente della Corte Costituzionale, che ha raccolto in un libro le sue proposte per arrestare il declino del sistema. «I dottori devono poter partecipare alla gestione e alle scelte operative»

Una sanità fondata sulla centralità della persona, prima che sulla cura della malattia. Proprio come sottoscritto con la Carta di Udine per l’umanizzazione delle cure un anno fa, in occasione della prima tappa degli Stati generali pensati e votati a veicolare un modello nuovo di approccio al paziente e di organizzazione del lavoro dei professionisti della salute.
Un “cambio di paradigma”, insomma, a cui il vicepresidente della Corte costituzionale, Luca Antonini, a sua volta medita da tempo e che non a caso rappresenta la tesi di fondo del libro “Pensare la sanità. Terapie per la sanità malata”, scritto a quattro mani con l’economista Stefano Zamagni. Un doppio binario progettuale, quindi, per un obiettivo unico, che martedì, dalle 17, nell’aula Strassoldo dell’Università di Udine, in via Tomadini 30/A, sarà illustrato e approfondito dallo stesso Antonini in un incontro che vedrà la partecipazione anche, al tavolo dei relatori, del professor Massimo Robiony, delegato dell’Ateneo all’Umanizzazione delle cure, e della collega Elena D’Orlando, delegata dell’Ateneo ai rapporti con il territorio e la valorizzazione delle conoscenze.
Professore, parliamo di diritto alla salute. In Italia è esercitato in un contesto sanitario che nel libro definite malato. Eppure, la Costituzione all’articolo 32 attribuisce proprio alla tutela della salute un peso fondamentale. Cos’è che non funziona?
«Le cose, da quando questo libro è stato pubblicato ed è finito all’attenzione della politica, hanno cominciato a cambiare. È stato un seme che ha portato frutto. Penso per esempio alle risorse: quest’anno la cifra impegnata nella legge di bilancio per la sanità è importante e questo anche grazie alla Corte costituzionale, che ha sottolineato come la spesa sanitaria sia costituzionalmente necessaria. Ciò di cui ancora c’è bisogno sono le idee. Perché il modello, rispetto al 1978, quando nacque il servizio sanitario nazionale e c’erano un’alta natalità e pochi anziani, è radicalmente cambiato. È cambiata la base della popolazione. E questo è avvenuto proprio grazie al sistema sanitario nazionale, che da allora al 2018 ha portato a un incremento di dieci anni della vita media degli italiani. Insomma, come recita il titolo che abbiamo dato al libro, per rilanciare la sanità italiana occorrono idee».
Qual è allora la soluzione, se non proprio la rivoluzione prima di tutto in termini di approccio culturale, che proponete per raddrizzare il sistema e riportarvi al centro il paziente?
«I latini usavano due termini per indicare la salute: valuetudo, con riferimento a quella fisica, e salus, con riferimento a quella del corpo e dell’anima. Ecco, i concetti di umanizzazione e centralità del paziente sono importantissimi. Bisogna superare quel modello razionalistico e cartesiano per cui si cura solo la malattia e non si vede l’uomo che c’è dietro, perché in alcuni casi questa dissociazione porta a gravi danni per le persone e le loro famiglie. Ci si dimentica, per esempio, delle interazioni che le medicine date hanno con altre patologie. Il libro ruota attorno all’idea di una medicina umanistica. Senza, creiamo gravi danni al sistema: curiamo, ma lasciamo le persone estremamente sole. Il cambio di paradigma passa anche attraverso la presa in carico delle persone. Ma su questo siamo ancora indietro. Basti pensare alle cure palliative, verso le quali in Italia c’è scarsa attenzione, gli specializzandi sono pochi e c’è pochissima formazione. E questo, nonostante siano importantissime non soltanto per i malati terminali, ma anche per accompagnare la vita delle persone».
Nel libro sostenete “l’insostenibilità del modello organizzativo taylorista” in ambito sanitario. Cosa significa e cosa suggerite per fare quadrare i conti senza tagliare i servizi in un Paese sempre più anziano?
«È un modello di organizzazione aziendale che non va bene in campo sanitario. Il medico fa il medico e il manager fa il manager: una dissociazione dei compiti che non può funzionare. Basti pensare ai direttori generali delle aziende sanitarie: possono avere una laurea qualsiasi ed è sufficiente che frequentino un corso di cento ore, per governare un’azienda che muove centinaia di milioni di euro. Questo è il taylorismo. E invece un dg deve sapere di sanità perché è un mondo particolarissimo e richiede competenze specifiche. Ho visto progetti calati dall’alto senza consultare prima i medici che se ne devono occupare. Non va bene: i medici devono poter partecipare alla gestione della sanità e alle scelte organizzative che la riguardano».
In Friuli il 1° dicembre diverranno operative le prime tre Case di comunità. Possono davvero rappresentare quei “presidi di salute” di cui il territorio necessita per migliorare l’organizzazione dell’assistenza sanitaria?
«Possono senz’altro essere una soluzione molto importante, proprio perché è cambiata la popolazione e quindi tanti anziani devono trovare posti dove essere accompagnati. Ormai, le strutture per acuti servono sempre meno e possono essere concentrate in alcune zone della regione, mentre è fondamentale che a livello territoriale, capillarmente, sia curata la presa in carico della persona. In questo senso, ben vengano le case di comunità, che però richiedono uno sforzo organizzativo notevole. Nel Pnrr erano stati stanziati 16 miliardi per ospedali e case di comunità. Le strutture sono state realizzate, ma non si è stati attenti alla formazione. Da qui, a nostro avviso, il rischio che diventino cattedrali nel deserto della sanità, ossia strutture vuote. Con il governo Draghi, si è pensato alle strutture, ma non che andavano anche riempite con competenze adeguate. E cioè con tutti gli specialisti di cui un anziano abbisogna. Oggi in alcune parti del territorio nazionale funzionano, perché con grande sforzo organizzativo, proprio come immagino in Friuli, si è riusciti a trovare le persone. Ma in tanti altri posti sono rimaste cattedrali. Un errore fondamentale nel Pnrr è stato anche il mancato coinvolgimento nella coprogrammazione delle strutture degli enti no profit. Risultato non proprio felice, quindi, a fronte di un’idea ottima».
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