Mille giorni di governo Meloni: tengono i conti, male le riforme

Giorgia Meloni taglia il traguardo dei mille giorni alla guida del governo, quinto più longevo della storia repubblicana ed è tempo di un primo bilancio. Bene i conti pubblici e la politica estera, granitica la doppia leadership (esecutivo e partito), male le riforme

Carlo BertiniCarlo Bertini
La premier Giorgia Meloni
La premier Giorgia Meloni

«Ogni giorno al governo - sospira a Giorgia Meloni - è come un lancio col paracadute: non posso sbagliare». E di questi lanci ad alto rischio domani ne avrà fatti mille: i primi mille giorni di governo della prima premier donna.

Quinta nella classifica dei governi più longevi, dopo un bis by Silvio Berlusconi, dopo Bettino Craxi e Matteo Renzi. Quando avrà concluso la legislatura – perché tutti in Parlamento credono che la concluderà – avrà eguagliato il Cavaliere.

E punterà a un altro record: guidare due governi di fila, perché «questi qui – riferita alle opposizioni – finisce che mi inchiodano a Palazzo Chigi per un decennio», ha avuto modo di scherzare Giorgia, stando a un retroscena non smentito.

Come darle torto, visto che l’altra parte è ancora senza una coalizione, senza un leader, mentre alle elezioni mancano solo due anni? E visto che dopo mille giorni dietro la scrivania più scomoda d’Italia, Giorgia è sempre in testa nelle classifiche di gradimento? Pure in tempi di alta tensione e massima difficoltà?

Dal Veneto al Friuli, nove volti per il governo: ecco chi guida i dossier chiave dell’esecutivo Meloni
La redazione
Carlo Nordio, Elisabetta Casellati, Vannia Gava e Sandra Savino, Luca Ciriani

PREMIATA DAI NUMERI

Del resto, i suoi numeri sono buoni: l’ultimo sondaggio Ipsos certifica una crescita oltre il 28% del suo partito e dei suoi alleati, Lega e Forza Italia, con una flessione di oltre un punto di Pd e 5 stelle. Questo grazie a una vittoria della partita referendaria sulla cittadinanza e il lavoro precario ottenuta senza neanche scendere in campo.

Dato che i trend sono quelli che contano, quelli sul gradimento del suo governo e suo personale svelano un calo dall’insediamento a oggi, dal 54 al 45% per Meloni e dal 51 al 43 per il governo, ma un rialzo rispetto ai mesi scorsi significativo, segno di una ripresa di fiducia e apprezzamento del Paese. Senza contare che la premier viaggia sul 45%, staccando gli altri di varie lunghezze, con Tajani al 32, Conte al 28 e Schlein al 24, solo un punto sopra Salvini.

Forse la chiave della stabilità sta nel saper trasmettere doti di leadership, nel dare l’idea che non vi siano altri, a destra e a sinistra, in grado di guidare il Paese; perché per il resto, a dire il vero non è che possa fregiarsi di troppi galloni.

Cosa resta dei grandi proclami riformatori dopo i primi mille giorni di governo del Paese di questo esecutivo di destra? Non il premierato, che doveva essere la grande rivoluzione di sistema sbandierata da Giorgia in ogni talk, finito in un cassetto del presidente della commissione Affari Costituzionali.

Non l’Autonomia regionale, smontata dalla Corte costituzionale e congelata in attesa di tempi migliori, con buona pace della Lega. Marcia solo la riforma della Giustizia, che dovrà passare sul ponte tibetano di un referendum confermativo.

Di sicuro uno stemma sul bavero del tailleur lo può appuntare: la linea ferma sulla frontiera che conta in politica estera, l’Ucraina, dove Giorgia sta con l’Europa più che con l’ondivaga America di Trump.

Ma sulla frontiera che conta in economia, quella dei dazi e dei riflessi che causeranno, solo il primo agosto, quando Trump scioglierà il nodo sulle tariffe all’Ue, si vedrà se la sua politica della mano tesa al tycoon avrà dato frutti.

In ogni modo, sul bilancio di questi mille giorni di governo, c’è chi la invita a vantarsi del «populismo rinnegato», perché – per dirla con il liberal Luigi Marattin, «ogni volta che ha scelto la responsabilità al posto del populismo ha fatto bene».

Chi la strattona al grido «Meloni quanto ci costi?», rinfacciandole le promesse fiscali tradite, come fa Matteo Renzi. Chi la accusa di esser rimasta agli slogan ordine e sicurezza di Colle Oppio senza aver assunto un profilo più maturo e chi le rimprovera la doppiezza di un «garantismo di facciata e un giustizialismo nelle pene», contestando il decreto sicurezza che introduce nuovi reati.

Lei si autoassolve, soddisfatta di aver adempiuto al suo compito con onore, tributo concesso dai suoi sodali, ma anche dai sondaggi che continuano a sorriderle. Malgrado ancora non si sia visto quello scatto, quel quid avrebbe detto il Cavaliere, che fanno di un leader un campione che lascia il segno.

«Stabilità sì, crescita no», sintetizza bene sul Foglio Veronica De Romanis.

I pro: Conti in ordine e la leadership rimane solida

La stella che nessuno le contesta è la leadership. In questi anni la premier si è dimostrata in grado di reggere le redini del governo e del partito: una capacità non scontata, tanto che ai tempi della Dc vigeva la regola che un presidente del consiglio non potesse svolgere il ruolo di segretario del partito: un big come Ciriaco De Mita lo ha capito sulla sua pelle, perdendo in un colpo entrambe le cadreghe per eccesso di hybris. Invece Giorgia, non solo regge un governo di coalizione, ma per mano della sorella tiene in pugno dal 2022 pure i Fratelli d'Italia, che le riconoscono potere assoluto senza intralciarla. Le correnti esistono, ma rifugiate nelle segrete stanze e senza farsi pubblicità, nessuno si sogna di alzare il mento e guardare negli occhi Giorgia per sfidarla.

POLITICA ESTERA LINEARE

Il secondo punto di forza è la politica estera: allineata al Capo dello Stato, con il quale c'è un rapporto problematico ma senza strappi (tranne che sui giudici), Meloni non segue gli estremismi di Salvini e dei Patrioti ma si posiziona sul versante europeista, facendo votare contro la mozione di sfiducia a Ursula Von der Leyen.

Ha ancorato l'Italia in difesa dell'Ucraina, in linea con i "volenterosi" francesi e tedeschi, pur negando eventuale invio di truppe.

Accetta il dogma del riarmo ben interpretato da Sergio Mattarella con la frase "rafforzare la difesa europea è uno sviluppo dell'integrazione europea". E le spese per sostenerlo, trascinandosi dietro Salvini che spera di convogliare fondi sul Ponte sullo Stretto, beccandosi però gli strali dei pacifisti che la accusano anche di sacrificare il welfare.

MENO SBARCHI

Terzo punto col segno più, la frenata dell'immigrazione, ottenuta forse con mezzi discutibili come il decreto Cutro, disapplicato da vari giudici per il rispetto dei diritti umani, o il centro di detenzione in Albania, che malgrado sia deserto, potrebbe avere una capacità di deterrenza agli arrivi: fatto sta che gli sbarchi sono crollati del 30% nel 2025, anche se altri dati mostrano che in giugno sono cresciuti del 14% e l'estate potrebbe serbare sorprese.

CONTI OK, TRA LUCI E OMBRE

Meloni può vantare uno spread sprofondato a 80 punti, mai così basso da anni, un outlook in rialzo delle agenzie di rating grazie al rigore dei conti, pur con un debito pubblico in crescita. Ma sui lasciti al Paese reale, luci e ombre: Schlein denuncia i tagli alla spesa sanitaria, l'assenza di politiche industriali – industria 5.0 non funziona, lamentano gli imprenditori – la soppressione di incentivi per l'auto, un'escalation del lavoro precario, il no a un salario minimo legale, i tagli ai comuni.

L'Istat di contro certifica una crescita dell'occupazione, un calo dell'inflazione, aumento dei salari reali. Certo è che l'Italia corre meno di Francia e Spagna, intorno all'1%nel 2025; che la crescita dei prezzi del carrello della spesa è doppia di quella dell'inflazione e che non si prevedono vacche grasse in tempi bui di guerre e instabilità geopolitica. 

I contro: Riforme a fatica e una coalizione che è sfilacciata

Di presidenti del consiglio eletti dal popolo non si parla da più di un anno, dopo il primo sì del Senato alla riforma.

Poi le 200 e passa bocciature dei migliori costituzionalisti del Paese, su un testo che fa acqua, hanno fatto salire le quotazioni di una nuova legge elettorale, in gestazione: dove il volto di ogni candidato premier comparirebbe sulla scheda accanto ai simboli dei partiti in coalizione. Più o meno un premierato ottenuto con altri mezzi, che evitano la pessima soluzione di avere un Capo dello Stato senza il potere di nominare premier e ministri, debole e dimezzato.

AUTONOMIA IN FORSE

L'altra riforma delle riforme, varata un anno fa dalle Camere e attesa dalla Lega, l'Autonomia, giace nei cassetti, fatta a pezzi dalla Consulta: con la speranza del suo ideatore Roberto Calderoli di farle rivedere la luce in autunno, ma con pochi fan al seguito, specie tra gli alleati di Forza Italia e i Fratelli-coltelli che hanno una base elettorale nel centro-sud.

GUERRA CON I MAGISTRATI

Quella sulla Giustizia, invece, invocata da Forza Italia marcia come un treno. Quante volte ci ha provato Mattarella a scongiurare lo scontro con le toghe? Non si contano, dal 2022.

Moral suasion, appelli, niente: un pranzo al Quirinale di Giorgia col presidente, a febbraio, aveva fatto pensare che il governo avrebbe smussato gli angoli della riforma che ferivano di più i giudici: non tanto la separazione delle carriere, quanto sorteggio per il Csm e valutazione dei magistrati.

Invece picche: dopo il sì della Camera al testo fotocopia uscito dalla penna di Nordio, al Senato lo stesso film: nessun ritocco, discussione strozzata e pugno duro. Magistrati in rivolta, Anm, camere penali, tutti contro. Ma fa nulla.

ALLEANZA SFILACCIATA

Forse perché la bilancia delle riforme pende da una parte, la coesione dell'alleanza è una favola venduta ai creduloni: in realtà la coalizione è sfilacciata e nervosa, in attesa dell'ultimo test elettorale prima delle politiche: quel voto in 6 regioni dove la premier non toccherà palla se ridarà lo scettro alla Lega in Veneto.

È la regione oggetto del contendere, cavallo di Troia per entrare nel cuore del Nord, così la vede Meloni. Di queste tensioni sulle candidature l'alleanza soffre, senza riuscire a venirne fuori. Una coalizione che litiga pure sull'Europa che mette bocca sulle banche italiane, sui dazi, sui diritti e sulle poltrone.

I DIRITTI NEGATI

Quanti appelli, quante sentenze della consulta dal 2019 per aprire spazi negati sul fine-vita, per consentire ai giudici più margini, per chiedere al governo di fare una legge? Niente di fatto.

Idem sulla cittadinanza, tornata in cantina, dopo quel «non è una priorità» pronunciato dall'erede Berlusconi per far abbassare il capo a Tajani. Forte del referendum sulla cittadinanza, il governo non tocca neanche questo nervo scoperto. La destra di Lega e Fdi comanda sui diritti, gli altri seguono si adeguano.

Riproduzione riservata © il Nord Est