Gaza, il genocidio e l’uso delle parole che costruiscono le nostre coscienze
Dal silenzio su Srebrenica alle immagini da Gaza: il rifiuto dei termini giusti non è solo questione di retorica, ma di responsabilità collettiva e azione politica


Quest’anno, nei trent’anni dal genocidio di Srebrenica, sulla facciata di un edificio a Sarajevo che sempre ricorda i giorni dell’assedio, cappeggiava uno striscione: diceva all’incirca “smettete di ammazzare i bosniaci per i vostri pregiudizi cristiani” e sopra c’era la foto dei caschi blu dell’ONU che a Srebrenica si macchiarono della più grave colpa, il tradimento della popolazione inerme.
Lasciando da parte l’enfasi e le iperboli che spesso accompagnano questo tipo di dichiarazioni e portano a liquidarle in fretta, c’era però un sottotesto che ha continuato ad accompagnarmi: l’idea che esista un’umanità di serie A e di serie B, diritti umani che valgono per alcuni più che per altri, singoli o gruppi che risvegliano le nostre coscienze in maniera differente.
È un pensiero mostruoso, di fatto testimoniato dalla Storia. La questione torna oggi in maniera non rimandabile davanti agli accadimenti di Gaza.
Nell’estate del 1995, mentre migliaia di civili, uomini e ragazzi musulmani venivano uccisi con sistematicità genocidaria a Srebrenica e nei luoghi limitrofi, non pochi di noi andavano in vacanza nelle coste dalmate, i traghetti continuavano a fare avanti e indietro da Spalato ad Ancona.
Certo, ci si informava, ci si preoccupava, ma era estate e bisognava pur riposarsi. Sono passati trent’anni e ancora oggi, in Italia, si fatica a chiamare quello che accadde a Srebrenica con il termine con cui è stato giudicato dai tribunali dell’Aia: genocidio.
Oggi, in un’altra estate, di nuovo ci accapigliamo, noi nell’Europa in pace, sulla correttezza dei termini da usare davanti alle immagini del sistematico massacro con vari mezzi della popolazione palestinese.
David Grossman, che è vissuto e ha cresciuto i suoi figli nel conflitto costante tra Israele e Palestina e che in quel lungo conflitto ha perso un figlio, ha dichiarato che non si può più esitare, il termine genocidio va usato per la situazione di Gaza. Ha soprattutto spiegato perché va usato: per richiamare israeliani e palestinesi, ma anche europei, a una responsabilità.
Liliana Segre ha obiettato che no, genocidio è una parola manipolata da chi ha sentimenti antisemiti. In molti, in buonafede, davanti a questo scambio, hanno ribattuto esasperati: chiamatelo come volete ma va fermato.
E verrebbe da essere d’accordo, non fosse che le parole non sono contenitori vuoti e non hanno un ruolo neutro rispetto alla possibilità di agire.
Perché è importante poter usare la parola genocidio? (Perché l’ha usata David Grossman e con lui molti altri che non sono giuristi ma persone che lavorano con le parole e ne conoscono massimamente il potere?).
La prima, più ovvia, è una ragione di ordine giuridico e geopolitico. L’accusa di genocidio permette la messa in atto di sanzioni verso il paese accusato e la revoca di alcuni rapporti diplomatici, permette alla comunità internazionale di considerare un intervento umanitario per proteggere la popolazione a rischio, e in casi estremi anche l’intervento militare.
Ma c’è anche una seconda ragione, non meno importante. Il rapporto tra le parole e le cose (i fatti). Non è sempre stato identico nella storia dell’uomo. Se nell’epoca classica il linguaggio era visto come la rappresentazione, quasi trasparente, del reale, con l’età moderna invece il rapporto si complica. La maggiore centralità del soggetto e i successivi studi di antropologia, psicologia, economia, hanno mostrato come il linguaggio non sia un semplice riflesso del mondo: le parole costruiscono il mondo, la nostra esperienza e la nostra capacità di comprenderlo, le nostre azioni anche.
Mezzo secolo di riflessione filosofica ci ha mostrato come la realtà non sia un dato di fatto che esiste autonomamente, ma prende una forma ed è continuamente costruita da pratiche discorsive che orientano il nostro capire e agire.
Rifiutare il termine genocidio per quello che sta accadendo a Gaza significa allora non solo interpretare i fatti in una certa maniera, ma incide nella nostra possibilità d’azione.
Il pericolo, in questo orizzonte, è quello di ridurre la definizione – nata all’indomani dell’orrore nazifascista perpetrato sugli ebrei (e su altre minoranze come sinti e rom) ¬–a una bandiera di fazioni: si svuota così il linguaggio del suo potere di costruire la nostra conoscenza ma anche la nostra coscienza.
Il linguaggio è un elemento portante della soggettività umana perché è capace di abitare il tempo: il termine genocidio, nato per dare giustizia a un crimine di portata inimmaginabile (non per renderlo pensabile e tanto meno per giustificarlo, ma per dare giustizia alle vittime), non può essere tenuto in ostaggio. Le parole, i concetti, non sono patrimonio di una parte, ma sono strumento di comprensione, giustizia e azione.
Ogni genocidio è caratterizzato da una differenza di luogo e di tempo, di contesto. La contabilità dei morti è necessaria ma non comporta una gradazione del Male, non quando si manifesta come assoluto. A meno che non si voglia considerare la scandalosa idea che esista un’umanità di serie A e di serie B: uomini e donne, bambine e bambini che valgono meno di altri e il cui annientamento non prevede nessuna intenzionalità, perché non sono interamente soggetti (non raccontate le loro storie!), ma solo oggetti di un effetto collaterale. Grossman ci richiama a una responsabilità.
I mezzi di comunicazione e le tecnologie moderne hanno reso sempre più difficile dire “non lo sapevo”, l’indignazione postuma e inerte.
A Srebrenica i caschi blu si voltarono dall’altra parte mentre consegnavano migliaia di civili alla morte. A Gaza possiamo cambiare canale, invocare le fake news, svuotare le parole di senso ma, nonostante l’interdetto alla stampa internazionale, vediamo Gaza, quello che sta accadendo ai civili palestinesi è ogni giorno sotto i nostri occhi. Non si tratta solo di non tacere, pratica che non ha più nessun valore nell’era del rumore globale. Ma si tratta di usare parole precise, parole giuste: perché il nostro modo di usare le parole determina le nostre azioni, quelle dei nostri governi, e non da ultimo costruisce le nostre coscienze.
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