Perché Srebrenica è ancora attualità, 30 anni dopo

In un clima, oggi più che mai, segnato dalla polarizzazione internazionale e dal ritorno di istanze nazionaliste, la lotta per la verità su Srebrenica resta la cartina tornasole di un quadro più ampio e complesso

David Mazzerelli

Srebrenica è un sonnolento villaggio della Repubblica Srpska che si risveglia poche volte l’anno. Diversamente da altri centri, però, non è un festival o una sagra a riunire le persone, ma il ricordo di un massacro. I fatti sono noti: nel luglio 1995, durante la guerra in Bosnia, le forze serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić uccisero oltre 8.000 uomini e ragazzi bosgnacchi tramite una esecuzione sommaria che, alcuni testimoni, paragonarono a una "tonnara".

La zona di Srebrenica era una cosiddetta “safe area” ONU, sotto la protezione dei caschi blu olandesi: ben presto, quello che doveva essere un sicuro rifugio garantito dalla comunità internazionale, si trasformò in un campo di sterminio pianificato, al punto che il Tribunale dell’Aja per l’ex Jugoslavia utilizzò il termine genocidio, condannando numerosi responsabili, tra cui lo stesso Mladić e Radovan Karadžić, che stanno ancora scontando le rispettive pene.

 

Il 2025, per Srebrenica, è stato un anniversario particolare: migliaia di persone sono arrivate in città l’11 luglio per rendere omaggio al memoriale di Potocari, inaugurato nel 2003 da Bill Clinton e a volte chiuso dalle autorità della Repubblica Srpska per questioni di sicurezza.
Il fatto che un cimitero sia ritenuto pericoloso riflette molto bene lo spirito che persiste ancora oggi in alcuni paesi balcanici, dove il presente rimane profondamente intrecciato alle questioni passate. Anche i temi dell'agenda politica si formano spesso attorno a dibattiti sulla storia recente, che finiscono per rallentare le decisioni e dare poche chance al futuro. È il caso della Bosnia, che ha uno dei sistemi istituzionali più complessi al mondo con due stati al proprio interno (con due differenti presidenti), oltre a una presidenza centrale tripartita (un rappresentante per ciascun gruppo etnico: bosgnacco, serbo, croato). La burocrazia, conseguenza degli Accordi di Dayton, è il primo ostacolo al futuro.

 

La memoria del genocidio rimane una ferita aperta, profondamente strumentalizzata da entrambe le parti e spesso raccontata con toni revisionisti: è così che si alimenta, trent’anni dopo, la polarizzazione delle società balcaniche. Dalla parte di Belgrado e Banja Luka si minimizzano quegli accadimenti e si è reagito in maniera dura alla risoluzione delle Nazioni Unite che ha dichiarato l’11 luglio “Giornata internazionale della memoria del genocidio di Srebrenica”.

Nella Federazione di Bosnia-Erzegovina, invece, si enfatizzano le sofferenze bosgnacche, omettendo spesso i crimini contro i serbi. L’errore in cui cade spesso anche l’Europa è proprio quello di ragionare per stereotipi, giudicando i rappresentanti dei Governi di Serbia e Srpska secondo categorie stantie invece di scoprire i progressi che vengono fatti nelle rispettive società e incoraggiando la loro adesione all’Unione Europea.

Borjana Krišto, presidente del Consiglio dei ministri della Bosnia ed Erzegovina, fa gli auguri agli USA su X per il 4 luglio  e pubblica molti post di ricordo del Trentennale del massacro. Milorad Dodik, presidente della Repubblica Srpska, si limita a ringraziare il Ministero degli Interni per aver consentito un sereno svolgimento delle celebrazioni a Potocari , non perdendo occasione per attaccare Christian Schmidt, l’alto rappresentante per la Bosnia ed Erzegovina, un ruolo previsto dagli accordi di Dayton e in vigore finché si concretizzerà l’adesione all’Unione Europea, da molti vista come un’ipotesi ancora piuttosto remota. Ogni gruppo etnico si aggrappa alla propria versione della storia, non per sanare, ma per giustificare il presente, le proprie scelte politiche (ed elettorali) e le tensioni quotidiane che da sempre rendono i Balcani un luogo particolarmente delicato.

Emblematico, a questo proposito, è quanto accade nel cuore di Belgrado, dove campeggia il murales "The only genocide in the Balkans was against the Serbs", recentemente ridipinto. Le posizioni del governo serbo, negli anni, si sono fatte sempre più caute quando si affrontano i temi che riguardano le guerre balcaniche. In un clima, oggi più che mai, segnato dalla polarizzazione internazionale e dal ritorno di istanze nazionaliste, la lotta per la verità su Srebrenica resta la cartina tornasole di un quadro più ampio e complesso in cui una reale riconciliazione e una pace fondata sulla giustizia e sulla memoria condivisa sembra davvero difficile da raggiungere.

La memoria irrisolta non è soltanto un fardello per la Bosnia e la Serbia, ma un’eredità che minaccia la stabilità dell’intera regione balcanica e mette in discussione la capacità europea di fare i conti con i propri fantasmi più recenti. Come Radovan Karadžić, che per molti è ancora un mito e oggi concede spesso interviste e pubblica articoli dal carcere. Chi lo ha sentito riferisce di una preoccupante instabilità mentale. Oppure il generale Mladic, che oggi ha 83 anni, si trova nel penitenziario del Tribunale dell’Aia di Scheveningen e versa in condizioni di salute disperate. I suoi avvocati ne hanno chiesto la scarcerazione per questioni “umanitarie”. La sfida futura sarà quella di trovare un modo – meno traumatico possibile - per lasciare che il tempo scorra, senza dimenticare, ma permettendo al futuro di esistere senza essere ostaggio di ciò che è stato.

 

 

 

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