La crisi senza fine nel nord del Kosovo: una folla di serbi a difesa delle barricate
Centinaia di persone in strada per protesta, nel mirino il «terrore» del premier Kurti. Su bandiere e striscioni l’appello al presidente Vucic

PRISTINA Una pentola in ebollizione, con il coperchio pronto a saltare. Si potrebbe descrivere così la situazione nel nord del Kosovo, dove le proteste pacifiche e le barricate dei serbi stanno ormai per entrare nella terza settimana. E nulla fa intendere che la crisi possa rientrare a breve, anzi. Lo conferma la grande manifestazione dei serbi, tenutasi presso una delle nove barricate che da quattordici giorni stanno bloccando il traffico sulle maggiori arterie stradali nel nord, tra bandiere serbe e striscioni contro il «terrore» del premier kosovaro Albin Kurti; il tutto tenuto sotto osservazione da truppe Nato e della missione Eufor, mentre era stata rinforzata già da giorni la presenza della polizia kosovara nell’area.
Si tratta «della più grande protesta di sempre» nel nord, ha sostenuto la Srpska Lista, partito espressione degli interessi serbi in Kosovo, con stime che hanno parlato di almeno 1.500 persone in strada, un numero notevole per gli standard locali. Ad arringare la folla anche Predrag Pantić, figlio di Dejan, l’ex agente di polizia di etnia serba arrestato a dicembre dai suoi ex colleghi, la «goccia che ha fatto traboccare il vaso» e ha portato i serbi sulle barricate, ha detto il giovane sostenendo che il padre sarebbe stato arrestato «solo perché serbo». Nel frattempo i manifestanti innalzavano cartelli con su scritto «presidente Vučić contiamo su di te», «Kurti, il Kosovo non è tuo, ma la terra dei nostri avi» e «giustizia per Dejan» e gli altri serbi di recente arrestati dalle autorità di Pristina, in circostanze ancora assai oscure, fermi interpretati come una provocazione a Belgrado.
Serbi che non inviano segnali di voler scendere dalle barricate, mentre Pristina ha gettato da parte sua altra benzina sul fuoco. Da segnalare, in particolare, le parole assai poco diplomatiche del premier Kurti, che nei giorni scorsi ha assicurato che Pristina ha tutta l’intenzione di «rimuovere i blocchi», ma non può «escludere vittime» nelle operazioni di smantellamento e per questo «agiamo con molta cautela». Kurti ha poi posto nuovamente l’accento sui «legami tra Belgrado e Mosca», suggerendo implicitamente che ci sarebbe anche la mano russa dietro il caos nel nord. Barricate che andrebbero sgombrate e bisognerebbe farlo «entro Natale», ha fatto eco l’ambasciatore tedesco a Pristina, Joern Rohde, provocando vera ira a Belgrado, con la premier Ana Brnabić che ha parlato di «dichiarazioni oltraggiose». «Ambasciatore, chiarisca almeno di quale Natale parla, il nostro» ortodosso «oppure il vostro, così, solo per sapere», ha continuato Brnabić, suggerendo sarcasticamente che la feluca tedesca sarebbe preoccupata dal fatto che «le barricate impediranno a Santa Klaus di giungere in Kosovo». Ma la premier, con toni molto più gravi, ha anche avvertito che il Kosovo è realmente «sull’orlo di un conflitto armato».
Le barricate, ha detto da parte sua Aleksandar Vučić, saranno tolte soltanto quando Pristina darà luce verde alla formazione «della Comunità delle municipalità serbe», concordata da un decennio e mai creata malgrado i recenti appelli anche degli Usa, perché Pristina teme che si trasformi in una nuova Republika Srpska.
Nel frattempo, nel nord, i segnali negativi aumentano. Segnali come le voci di misteriosi rapimenti di serbi, condotti poi in Serbia da ignoti. O la certezza, denunciata da Eulex, della presenza di «persone armate e mascherate» presso le barricate. E i Natali, cattolico e ortodosso, non sembrano capaci di portare alcuna tregua. O ad alcun passo indietro di entrambi i contendenti.
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