Accuse di «guerra civile» dopo gli scontri in Serbia: almeno ottanta feriti

Dimostranti e governo si scambiano duri attacchi sulla responsabilità delle violenze. Gli studenti parlano di «regime». Il presidente Vučić: «Attacco rivoltante allo Stato»

Stefano Giantin
Un momento degli scontri in Serbia
Un momento degli scontri in Serbia

Toni sempre più accesi, accuse pesantissime, persino evocazioni di «guerra civile». Non scema, anzi, si acuisce la tensione politica e di piazza in Serbia, scossa da due giorni di proteste, violenze e incidenti registrati prima tra martedì e mercoledì a Vrbas e Bačka Palanka e poi, mercoledì notte, a Novi Sad, ma anche a Belgrado e in decine di località minori.

Proteste e incidenti che hanno registrato un bilancio drammatico: almeno ottanta feriti, tra cui 27 poliziotti e 7 militari dell’esercito, alcuni sarebbero gravi, hanno reso noto le autorità.

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La redazione

Ma a chi vanno attribuite le responsabilità dei disordini? Su questo fronte le campane sono completamente discordanti. Quella degli studenti, sempre anima della protesta di piazza post tragedia di Novi Sad assieme a gruppi di cittadini auto-organizzati, dice che quanto accaduto negli ultimi giorni altro non sarebbe che un tentativo delle autorità di «spingere verso una guerra civile», lanciando provocazioni e scatenando scontri di piazza.

Il «regime» dà la colpa agli studenti e non si nasconde più dietro frasi sul dialogo: il presidente Aleksandar Vučić ormai parla apertamente «di pulizia», ossia di rimuovere con la forza dalla scena chi manifesta, il durissimo j’accuse di “Studenti u blokadi”, seguitissimo profilo social degli studenti.

I giovani hanno accusato nuovamente la polizia di «proteggere i lealisti» di Vučić, i giovani estremisti dai volti celati da fazzoletti e mascherine che per primi avrebbero «lanciato sassi e fumogeni contro i dimostranti» negli ultimi due giorni, scatenando il caos. Infine, un messaggio-sfida a Vučić: «Le persone più intelligenti non si arrendono, si organizzano, indici le elezioni» anticipate, «codardo».

Completamente diversa è la versione di chi oggi detiene il potere a Belgrado, che imputa a studenti e indignados di aver pianificato attacchi contro sedi dell’Sns di Vučić e la stessa polizia. E di aver dunque scatenato una reazione per legittima difesa da parte dei sostenitori del governo.

«Non vi sarà in Serbia alcuna guerra civile», ha replicato il presidente serbo, che durante gli incidenti si è fatto vedere nientemeno che a “Cacilend”, l’accampamento davanti al Parlamento di suoi sostenitori, luogo odiatissimo dalla piazza.

Lo Stato «è sufficientemente forte e in grado di impedire ogni tentativo di scatenare una guerra civile, che metterebbe a repentaglio la pace e la sicurezza nel Paese», ha aggiunto Vučić, che ha sostenuto che ci sarebbero stati «64 feriti» solo in una sezione del suo partito, l’Sns, a Novi Sad.

Quanto si è osservato in Serbia negli ultimi giorni da parte della piazza va considerato come «un rivoltante attacco contro lo Stato», ha fatto eco il ministro degli Interni, Ivica Dačić.

Ancora più dura, se possibile, l’ex premier e oggi presidentessa del Parlamento, Ana Brnabić, che ha definito i dimostranti «terroristi con falangi di picchiatori». Ma «la responsabilità maggiore è di chi li appoggia sui media, di quelli che ogni giorno approfittano dei discorsi di odio contro tutti quelli che non la pensano come loro, di quelli che li sostengono finanziariamente». Parole che fanno intuire che la Serbia va verso un periodo caldissimo.

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