L’Unione europea non è mai stata terra di dazi

È vero, c’è abbondanza di regole in Europa: ma la colpa è del meccanismo nazionale di determinazione dei prezzi, non di Bruxelles

Marco Zatterin
(foto Epa)
(foto Epa)

Una manovra di distrazione di massa, tanto ben concepita quanto fuorviante. Davanti alle difficoltà oggettive dell’economia italiana, certo non tutte imputabili al governo, Giorgia Meloni spariglia e torna ad accusare i lacci e i lacciuoli dell’Europa, di cui stigmatizza i «dazi interni autoimposti». Con queste parole si aggrappa al legittimo risentimento che l’opinione pubblica nutre verso le “tariffe” americane - misure che seminano sconquasso nelle relazioni commerciali globali e minano la crescita planetaria - e lo rivolge contro l’Ue, l’istituzione che in tanti trattano con livore fine a sé stesso.

È una strategia mediatica che può far guadagnare tempo al campo sovranista al quale poco importa, così almeno appare, che sia priva di fondamenta. Perché i Ventisette fanno parte dal primo luglio 1968 di un’Unione doganale che ha abolito ogni forma di dazio interno: da 57 anni nessuna merce paga pegno quando passa da uno Stato all’altro.

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Giorgia Meloni e Matteo Salvini

Si dirà che è una metafora, ed è una obiezione accoglibile. La premier mette sotto accusa i 400 chilometri di Gazzetta ufficiale a dodici stelle. Decreta che sono troppi e invasivi, stimolando l’interrogativo su quanti chilometri di testi derivino dalle 160 mila leggi in vigore nel nostro Paese.

C’è in effetti abbondanza di regole nell’Unione; sono state ritenute necessarie per consentire a ventisette sistemi – Italia compresa – di creare la cosa il più simile possibile a un funzionale mercato unico e, allo stesso tempo, di tutelarsi. Se la prende con «i fagioli piccoli che non sono europei», tuttavia bisognerebbe chiedere agli agricoltori se a loro sta bene che si possano vendere legumi dalla dimensione ridotta in concorrenza con i nostri che sono più grandi e di qualità migliore: la taglia, in questo caso, è una garanzia che l’Italia (attraverso i suoi governi e i suoi eurodeputati) ha elaborato e recepito.

Ha ragione la presidente del Consiglio nel sottolineare che permangono vincoli eccessivi alla conduzione degli affari fra imprese e soggetti europei, giusto affermare che bisogna sburocratizzare. Ed è anche vero che l’Europa non fa abbastanza rete, sull’energia, ad esempio. Però se da noi le bollette sono più care che altrove, la colpa è del meccanismo nazionale di determinazione dei prezzi (come ricorda opportunamente Confindustria), non di Bruxelles. Giorgia Meloni grida «al lupo», contesta il Green Deal e le regole per la transizione climatica, per quanto il provvedimento sia già archiviato, sostituito in febbraio dal Patto per l’industria che il governo italiano appoggia per la sua neutralità tecnologica.

A leggere in filigrana le parole della premier emerge che il suo desiderio è avere meno regole, filosofia che può anche mettere alla prova gli spazi di tutela di imprese e professioni del Bel Paese. Vuole che i notai italiani operino liberamente in Francia e viceversa? Che le imprese tedesche vendano il loro latte con meno bolle d’accompagnamento e noi come loro? L’europeismo di Palazzo Chigi è ondivago, media fra le convinzioni di Antonio Tajani e i veleni di Matteo Salvini.

Più Europa con equilibrio è quel che reclamano le imprese dopo 25 mesi di crollo della produzione industriale. Più progetti e fondi comuni, insomma. Richieste sacrosante, a ben vedere. Per ottenere le quali serve barra dritta e negoziato. Non polemiche che facciano pensare all’Unione come alla terra dei dazi che non è. Quella, al momento, è oltreoceano. Con capitale a Washington.

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